Conversazione con Fausta Orecchio
di Guido Pigni
Fausta Orecchio, romana nata nel 1957, è da anni un punto di riferimento nel panorama del graphic design italiano. Dopo alcuni anni di collaborazione con Simone Tonucci e Sara Verdone, nel 2000 ha fondato lo studio grafico Orecchio Acerbo. Lo studio ha curato numerose immagini coordinate fra cui quella editoriale delle Ferrovie italiane e tutti i materiali per la comunicazione dell’Ente Teatrale Italiano; nel 1999 ha rinnovato l’immagine del Teatro di Roma sotto la direzione di Mario Martone e nel 1998 ha curato il restyling di tutte le collane della casa editrice Laterza.
Ha lavorato nel campo della comunicazione sociale per il comune di Roma ideando, fra le altre, la campagna Metrebus.
Dal 1992 al 1999 si è impegnato per l’abolizione della pena di morte con l’associazione Nessuno tocchi Caino, curandone la grafica. Nel 1997 ha avuto il premio Matita d’oro per il Graphic Design attribuito dall’ADCI; dal 1998 al 2001 è stato premiato con il Certificate of Design Excellence in tutte le edizioni dell’ European design Annnual, edito dalla rivista americana Print. Nel 2001 ha avuto la segnalazione d’onore dell’ADI nella XIX edizione del Concorso Compasso d’oro per il lavoro svolto per le riviste Nessuno Tocchi Caino e per Lo Straniero diretta da Goffredo Fofi.
Ora Orecchio Acerbo é diventato editore con una collana di libri illustrati per bambini e per ragazzi.
Abbiamo incontrato Fausta per parlare un po’ di questo nuovo progetto, di illustrazione, di grafica di impegno sociale e d’altro ancora.
Come e quando é avvenuta la decisione di diventare editori?
L’idea è partita qualche anno fa. Mi trovavo alla Fiera del Libro per ragazzi di Bologna e -visitando lo stand dell’editore Albin Michel- ho visto una collana di libri che si chiamava Parole. I primi titoli erano Parole di rivolta e Parole di speranza.. Si trattava di due libri di piccolo formato (13 x 22) illustrati rispettivamente da Nicolas d’Olce e da Michele Ferri che ospitavano testi di scrittori diversi, scelti da Michel Piquemal, curatore del libro. C’era una potenza incredibile e unica in quei libri: lo scambio continuo fra scrittura, disegni e grafica. Erano davvero molto belli. Ti impegnavano a un livello di lettura molto diverso da quella consueta. Si trattava di un linguaggio che andava dritto al cuore perché -come a contraddire il titolo della collana- non usava solo le parole. Non avevo mai visto niente di simile e cominciai a coltivare l’idea di poter fare dei libri su cui potessero lavorare insieme, scontrandosi o incontrandosi, uno scrittore, un disegnatore e un grafico. Cominciammo a parlarne insieme con Paolo Cesari (caporedattore di Dolce Vita e direttore di Nessuno tocchi Caino) e Fabian Negrin. Volevamo fare una collana che avrebbe dovuto chiamarsi I Blu (come dire un nuovo genere letterario oltre i gialli, i rosa, i noir). Da allora è passato molto tempo e sono successe molte cose a ognuno di noi. Fra le altre la nascita di Orecchio Acerbo che aveva nel suo statuto la possibilità di essere editore. All’inizio della scorsa estate, mentre preparavamo con Fabian i materiali per la mostra che avremmo dovuto fare a dicembre a Roma, pensammo che quella poteva essere l’occasione buona per pubblicare il primo libro. E così è nato Il giganteGambipiombo.
L’editoria per ragazzi in italia è da sempre molto prudente e in genere le cose migliori che si trovano o sono titoli acquistati all’estero o comunque prodotti un po’ scopiazzati qua e là. Mi sembra che si vada sempre molto con i piedi di piombo sia per i testi che per i disegni e la grafica. Secondo te che spazi ci sono per inserirvi in un contesto come questo che come giustamente dicevi tu “piuttosto che individuare reali bisogni dei lettori finisce per standardizzare al punto più basso il livello culturale generale”?
Io credo che lo spazio -magari piccolo- per fare cose buone ci sia sempre. Nessuno di noi si aspetta grandi successi. Fra l’altro siamo -come editori e in particolare come editori di libri per bambini- assolutamente dei dilettanti. Ma questo forse può diventare una forza. Non scartiamo a priori nessuna possibilità perché non siamo esperti del settore, non sappiamo cosa “tira” e cosa no. I nostri interlocutori sono i bambini che conosciamo, gli amici di cui ci fidiamo. Dentro la casa editrice, così come nello studio grafico, non abbiamo ruoli predefiniti (ufficio stampa, promozione, editor, lettore, grafico ecc.). Ognuno si occupa delle cose di cui c’è bisogno e la gran parte dei problemi si affronta insieme. Cerchiamo di ricondurre il lavoro all’integralità delle proprie funzioni. Qualche anno fa uscì la pubblicità di uno yogurt il cui slogan era “E’ buono quello che c’è dentro perché è meglio quello che c’è dietro”. Spero possa valere anche per noi.
Sono convinta che la nostra unica possibilità sia nella diversità, sia nel percorrere strade che dobbiamo essere capaci di inventare ogni giorno. La nostra possibilità sta nel contraddire le “regole del mercato”. O almeno alcune di quelle regole. Ad esempio oggi, in Italia, se usi la parola scoreggia in un libro per bambini stai già infrangendo una regola.
Ci siamo trovati a difendere il valore delle scoregge con lo stesso fervore con cui anni fa si difendevano i diritti del proletariato! Alcune librerie si sono rifiutate di prendere il libro perché volgare, Diario della settimana non lo ha voluto recensire per lo stesso motivo.
In altri casi il libro è stato definito “troppo bello”, “troppo ricercato”. Come a dire: il mercato ha bisogno di cose scadenti, meglio se sono un po’ brutte. Il bello non vende.
E ancora, a proposito di un’altra regola di mercato, perché dovremmo pubblicare venti titoli l’anno -a prescindere dalla loro qualità- solo per essere presenti in libreria?
Insomma, credo che la strada che abbiamo intrapreso sia difficile. Al tempo stesso sono convinta che se avremo fantasia, se ci sarà un pensiero dietro alle storie, ai disegni e alla grafica dei nostri libri, se sapremo “ascoltare le voci del mondo” come diceva Gianni Rodari, avremo una possibilità di essere ascoltati. E, naturalmente, se avremo i soldi per continuare a pubblicare libri.
Che “Il diario della settimana”, un settimanale che si definisce progressista, abbia avuto un rifiuto del genere é quantomeno inquietante. Ma non ci si dovrebbe stupire più di nulla, no?
Piuttosto credo che in questo caso non sia un fatto esclusivamente italiano, perché ogni paese ha i suoi tabù. Noi siamo un paese cattolico e tutto quanto abbia a che fare con il nostro corpo é un argomento da rimuovere. Di recente ho trovato un libriccino americano (che per la verità è una traduzione di un’edizione giapponese), dal titolo “Everyone poops”, tutti fanno la cacca. Mostra in maniera a volte ironica, e comunque sempre molto delicata, come tutti quanti, a cominciare dagli animali, poiché mangiano, di conseguenza fanno la cacca. Però questo é un libro impubblicabile in Italia. Nei paesi anglosassoni invece il grande tabù è il bere: se in un libro per bambini italiano o francese, dove il vino è simbolo di quotidianità e di cultura, questo é perfettamente accettabile, nei paesi di lingua inglese non se ne può assolutamente parlare. Però devo dire che la questione mi sembra molto più seria rispetto a rutti o scoregge. Lì un sacco di giovani aspettano di compiere diciott’anni per bersi tutto quello che non si sono potuti bere in precedenza; ci sono moltissimi incidenti stradali, ciclisti e pedoni investiti per colpa di guidatori ubriachi, insomma c’é un coinvolgimento che ha un peso diverso. Ma ti volevo chiedere, nella scelta del tema per “Il gigante Gambipiombo” c’é una qualche provocazione intenzionale, il voler sondare che reazioni poteva avere la scelta di un argomento considerato inaccettabile?
Assolutamente no. Eravamo completamente impreparati a queste reazioni. Credo che lo stesso valga per Fabian Negrin. Comunque sono dell’idea che Il gigante Gambipiomboabbia così infastidito non tanto per l’argomento in sé quanto per il modo di trattarlo. Per un verso l’uso della parola “scoreggia”, per un altro l’averne sottolineato il rumore con un tipo di scrittura assimilabile a quella del fumetto, spesso considerato letteratura inferiore. Mi sembra che, fermandosi al primo impatto con questi due aspetti non si sia visto che le scoregge sono solo un mezzo per raggiungere una dimensione fantastica all’interno della quale un gigante si nutre di nuvole fino a sparire oppure incontra oche che lo convincono di essere cammelli.
Nella critica di volgarità io intravedo anche una sottovalutazione della capacità delle immagini di comunicare qualcosa in sé. Immagini il cui tratto mi sembra, al contrario, estremamente elegante.
Con Fabian Negrin, l’autore de “Il gigante Gambipiombo”, hai condiviso molti progetti nel corso di questi ultimi anni. Ci vuoi raccontare come é avvenuto il vostro incontro? c’é qualcosa che ti fa lavorare particolarmente bene con lui rispetto ad altri illustratori?
Ho conosciuto Fabian una decina d’anni fa. I suoi disegni mi sono sembrati, fin dal primo momento, assolutamente straordinari. Così gli chiesi di collaborare al giornale delle Ferrovie (Linea Treno) dove avevo grande libertà nella scelta degli illustratori e dove fra l’altro le illustrazioni venivano pagate abbastanza bene. Tempo dopo Fabian decise di far stampare una sua cartella di serigrafie a Roma e così lo invitai a casa mia. Quando la sera tornai a casa cenammo insieme e lui passò quasi tutto il tempo a raccontarmi -in una lingua mista di italiano e spagnolo- la trama di Point Break in modo appassionato e insieme esilarante. Credo che la passione e l’ironia siano un elemento costante di tutto il suo lavoro. Per me da allora è cominciata una grande amicizia, di quelle che non finiscono. Lui mi ha fatto conoscere alcuni autori che amo molto (l’ultimo è Coetzee). Insieme abbiamo passato molte ore a discutere di illustrazione, di pittura, di libri. Quando affrontiamo un lavoro spesso non siamo d’accordo. Ma, alla fine, troviamo sempre una soluzione convincente per entrambi.
Il vostro orientamento editoriale sembra quello di utilizzare illustratori non propriamente specializzati in libri per l’infanzia. Questo mi sembra interessante. Di norma se vuoi fare un libro per bambini devi far vedere non solo che hai già pubblicato libri del genere ma che se l’argomento sono gli animali hai già pubblicato libri per bambini con disegni di animali. Sto estremizzando, ovviamente non sempre è così, ma capita spesso. Non si riesce a vedere oltre il proprio naso. Forse perché c’é questo grande equivoco della questione dello stile, vogliono sempre vedere che hai lo stile che stanno cercando. Invece mi sembra che il problema sia riuscire a proporre un linguaggio, che é qualcosa che va oltre lo stile, così come il sapersi accostare e comprendere il progetto con cui si ha a che fare…
Credo che tu abbia ragione. Lo stile diventa spesso una trappola, una gabbia che non consente di mettersi in relazione profonda con le storie che si raccontano. Mi pare che questo valga anche nella grafica o nella letteratura. Io credo che si dovrebbe tentare di “apparire” di meno, di guardarsi meno allo specchio per pensare di più a quello che si vuole raccontare.
I rapporti tra grafici e illustratori non sono sempre semplici. Spesso la collaborazione significa due interventi separati, senza un vero scambio e interazione tra le parti durante la fase progettuale. Questo modo di operare non mi sembra il tuo caso. Puoi dirci qualcosa sul tuo “metodo”?
Quando lavoro con un illustratore è difficile dire da chi nasca il progetto. Talvolta gli illustratori intervengono nella grafica o io intervengo sulle illustrazioni. Alle volte un’idea viene da loro, alle volte da me, altre volte ancora viene lavorandoci insieme. Io rispetto il loro lavoro e loro rispettano il mio. Questo fa sì che nessuno cerchi di emergere sull’altro e gli interventi sono sempre finalizzati al risultato: dare forza al messaggio attraverso le nostre capacità. Quando impagino una rivista ho con i disegni lo stesso rapporto che ho con il testo. Il procedimento è quello di leggerlo in Word, riducendo e ingrandendo continuamente le parti che mi sembrano significative. La stessa cosa succede con i disegni mentre li passo nello scanner e ne correggo i colori o i contrasti in Photoshop. Quando inserisco tutti gli elementi nella pagina, questo procedimento fa sì che io sia entrata in sintonia con quello che sto impaginando. E’ qualcosa che ha a che fare con la musica: ascolto il ritmo dei disegni e della scrittura, provo a sentirne le dissonanze, a marcare le assonanze. Credo che questo metodo metta il grafico in una posizione strategica. Si ha la possibilità di mettere in connessione forte i vari sistemi di scrittura oppure di creare un sistema di lettura trasversale.
Forse il lavoro del grafico potrebbe in qualche modo essere assimilato a quello dell’attore, vale a dire un lavoro d’interpretazione. Quanto più ci si cala nella parte, tanto più lo “spettacolo grafico” sarà riuscito. Magari qualche volta è necessario “cambiare una battuta”. Qualche altra capitano lavori che proprio non si possono interpretare e allora, potendo, è meglio rinunciarvi.
Come vedi la situazione dell’illustrazione italiana in questo momento?
Mi pare che in questi anni la situazione sia rimasta più o meno sempre la stessa. In Italia ci sono bravissimi illustratori che continuano a lavorare pochissimo e che hanno difficoltà a sopravvivere col proprio lavoro. Alcuni fra i migliori sono stati costretti ad andarsene a lavorare fuori dell’Italia. Per quanto riguarda la mia esperienza, mi è concesso uno spazio sempre minore per lavorare con gli illustratori. La maggior parte delle occasioni sono situazioni in cui i soldi sono pochi o addirittura non ci sono affatto (come per Nessuno tocchi Caino).
A questa situazione, già abbastanza deprimente, mi pare si aggiunga una certa povertà nello scambio e nella discussione fra gli illustratori. Mi pare che si stiano creando quasi delle fazioni, dei piccoli partiti di addetti ai lavori. Se non fai parte di nessun partito, se sei un “libero pensatore”, sei malvisto. Ciascuno difende lo spazio conquistato senza essere disposto a mettere in discussione il proprio lavoro. Spesso si prende come alibi la committenza perché non si vuole correre alcun rischio. Oppure per nascondere la propria scarsa capacità.
Però qualcosa mi pare sia cambiato nel modo di porsi degli illustratori rispetto, che so, a 15 anni fa. Allora c’era molto lavoro, anche più offerta che domanda, ma era impensabile proporsi nelle gallerie d’arte. C’era magari l’autore che dopo 30 anni di lavoro faceva una mostra degli originali, però finiva lì. Adesso c’é anche la possibilità, per pochi ovviamente, di fare mostre, partendo da progetti slegati dalla committenza, facendo diventare la mostra il progetto stesso. Certo gli spazi che danno queste possibilità sono minimi e lo fanno spesso con disattenzione, però é già qualcosa, danno al lavoro quella dignità culturale che il lavoro commissionato, vuoi per l’impossibilità di sviluppare ampi progetti, spesso non consente. Io poi sono d’accordo con te che la committenza non deve essere un alibi però é anche vero che la qualità viene creata dalla committenza quando questa é esigente, quando punta in alto; é la committenza che crea valore, che fa crescere il livello. Questo vale per tutte le epoche della storia. Gli artisti, ma non solo gli artisti, sono proliferati quando c’era un ambiente ricettivo dietro, quando ci si inseguiva l’un l’altro per fare cose sempre migliori. Quì é diventato perfino difficile incontrare gli art director nelle grandi case editrici…. In altri paesi, per la mia esperienza, é un po’ diverso, nessuno ti regala niente ma se vali ti riconoscono le capacità, il lavoro, la fatica impiegata per arrivare a dei risultati. Ovviamente si accontentano anche meno…
Certo, però forse la committenza si può far crescere. Sicuramente in Italia non cambierà molto, nel mondo dell’editoria, finché ci saranno grafici e illustratori disposti ad adagiarsi sulle richieste della committenza. Credo che le richieste vadano sempre ascoltate con grande attenzione e senza presunzione. Ma che occorra, al tempo stesso, mantenere la propria libertà critica, il valore della propria capacità espressiva (quando c’è). Il modo migliore, e anche quello più faticoso, è quello di ascoltarsi a vicenda. Credo che questo metodo vada difeso con forza, fino all’ultimo tentativo. Solo quando davvero si è provato fino in fondo che non c’è alcuna possibilità di dialogo, solo allora si può parlare di “bassa committenza”. Cito Enzensberger:… “poeti e scrittori hanno una antica tradizione a lamentarsi della propria sorte e generazioni di Kulturkritik hanno fatto del loro meglio per alimentare questa lagna e trasformarla in un generico atto di accusa contro la civiltà moderna. Può esserci qualcosa di vero ma, sicuramente, una discussione razionale delle nostre recriminazioni è possibile solo se noi mettiamo da parte, prima di tutto, l’elemento di autocommiserazione e di narcisismo che la deformano”. Io, ad esempio, ho avuto solo raramente esperienze di “bassa committenza”. Molto più spesso il rapporto con i miei committenti è stato ricco di scambio e di stimoli.
Vedi emergere dei talenti particolari in questo momento?
Si. I migliori mi sembrano: Mara Cerri (una giovanissima illustratrice di Pesaro che ha già ricevuto numerosi premi e menzioni e che farà la prossima copertina de Lo Straniero);l’assolutamente geniale Gipi (già noto per i fumetti, ma anche scrittore di bellissimi racconti, regista di cortometraggi e disegnatore); Luigi Raffaelli e Maja Celija (i disegni si possono vedere qui su Fat-Pencil); Claudia Muratori (lavora soprattutto sull’animazione. Ad aprile sarà, insieme con altri giovani illustratori, in una mostra alla Galleria L’Affichedi Milano)
Questa é una buona notizia, il ricambio é sempre salutare. Le scuole d’altronde sono diventate delle venditrici di illusioni. Prendono 25 studenti per classe, alcuni senza il minimo talento, ma non li mandano mai via perchè hanno bisogno dei loro soldi. Questi poverini pagano 10 milioni all’anno, e forse più, per non avere nessuna possibilità di lavorare in futuro. Gli insegnanti poi spesso anzichè aiutarli li percepiscono, quei due o tre che ce la faranno, come concorrenti e si guardano bene dall’indirizzarli verso i loro giri di lavoro. Tu hai avuto esperienze di insegnamento in scuole di design o altro?
Nessuna, ad eccezione di un breve intervento al corso di Laurea in Disegno Industriale della facoltà di Architettura di Roma e di un workshop promosso dall’Aiap. Fra l’altro, essendo autodidatta, non credo di essere capace di insegnare nulla in modo sistematico. Conosco pochissimo la situazione delle scuole di illustrazione ma, per quanto riguarda la grafica, mi sembra davvero sconfortante. Se si esclude qualche eccezione, mi sembra che si privilegi molto la tecnica a scapito della formazione culturale. Mi sembra che si faccia perdere ai ragazzi molto tempo su cose che si apprendono rapidamente appena entrati in uno studio, oppure su lavori che nella realtà, soprattutto in quella romana, non capitano se non in rarissimi casi. (Un classico è l’immagine coordinata di una grande azienda). All’impaginazione e alla tipografia, al rapporto con la scrittura, è dedicata una minima parte dei corsi mentre mi sembra che questo sia un ambito dove c’è ancora richiesta di lavoro, per non parlare dell’aspetto strategico che rappresenta per quanto riguarda tutto l’approccio con il graphic design.
Il tuo interesse per la grafica sociale risale ormai a molto tempo fa. Ci puoi dire qualcosa sul tuo percorso?
La mia è sicuramente una formazione di tipo politico. Sono cresciuta negli anni intorno al ’77 e ho aderito alle scelte, anche culturali, del movimento di sinistra che in quell’anno si sviluppò in Italia. Successivamente ho lavorato come grafico nel quotidiano LC (Lotta continua). È stata per me un’esperienza professionale e umana assolutamente fondamentale. Il lavoro era di tipo “totale” nel senso letterale della parola. Si cominciava dal bozzetto della pagina, poi facevamo uscire le “strisciate di testo” e le montavamo sulla pellicola. Facevamo anche le pulizie. L’unica cosa di cui non ci occupavamo, direttamente, era la stampa. Stavamo insieme, grafici e redattori, dalla mattina presto fino a notte inoltrata. Credevamo moltissimo in quello che facevamo. Ancora oggi mi è rimasta quell’idea di organizzazione del lavoro. Non credo nei ruoli predefiniti, né che esista chi ha l’idea e chi la deve realizzare. Non penso che esista il “lavoro” e il “divertimento”. Esistono le cose che ciascuno fa, la vita: meno la si divide in compartimenti stagni e meglio è.
L’illustrazione, già quasi per niente utilizzata nella stampa italiana per rappresentare l’attualità, è diventata quasi del tutto assente con gli ultimi eventi. Per esempio un settimanale come Internazionaleche si é sempre distinto per un uso intelligente tanto del giornalismo quanto dell’illustrazione, ha però sempre relegato quest’ultima alle pagine della scienza e alle rubriche, non ha mai azzardato, per dire, un servizio sulla guerra all’Afghanistan corredato da disegni. E’ un po’ la vecchia convinzione che solo la fotografia può restituire la “realtà” o c’é qualcos’altro? Non c’é anche l’idea che non sia il caso di rischiare assumendo punti di vista di cui non ci si vuol (e non si sa) prendere responsabilità? dopotutto di una fotografia, qualunque sgradevolezza essa mostri, ci si può giustificare dicendo che è un’immagine “vera” mentre l’illustrazione appare sempre come un’interpretazione….
Mi pare che quello che tu dici sia molto vero. E’ come se si volesse sempre dare ai lettori il certificato di realtà. Non pensando che alle volte un linguaggio narrativo –che certamente è proprio anche delle illustrazioni- può restituire meglio di un puntuale reportage giornalistico la realtà di cui si vuole dar conto. Ma credo che il problema riguardi –pur se in misura minore- anche le foto. Insomma, le immagini in generale. O quelle che si considerano immagini dimenticandosi che l’immagine, la prima immagine, è il testo scritto. Nelle riviste perdura il dominio incontrastato della parola. Spesso s’impagina lasciando dei buchi bianchi per foto e disegni che vengono considerati necessari soprattutto per “alleggerire” la lettura. Credo che ancora oggi -nella cosiddetta “era dell’immagine”- le immagini non le sappiamo leggere e continuiamo a volerle subordinare alla parola.
Sono convinta che ci sia una grande responsabilità anche da parte dei grafici che lavorano nelle riviste usando foto e disegni come riempitivo, in molti casi appellandosi alla ristrettezza del tempo a disposizione. A Reporter–un quotidiano in cui ho lavorato per poco più di un anno- la prima pagina del giornale e quella dell’inserto spettacoli si disegnavano solo quando si era arrivati a scegliere l’immagine giusta. Facevamo delle corse incredibili per riuscire a chiudere il giornale in tempo, ma a volta il risultato era davvero straordinario.
Quali sono stati secondo te i punti alti della grafica italiana degli ultimi decenni? A me vengono in mente le copertine di Linea d’Ombrae la rivista Dolce Vita,ma ovviamente io guardo sempre molto dal punto di vista dell’illustrazione. A questo proposito mi sembra un bel progetto, anche per i contenuti, Ventiquattro,il mensile del Sole 24 ore.Molto meglio dei vari settimanali del Corriere,di Repubblicao della Stampache sono evidentemente confezionati sui gusti di un pubblico televisivo…
Secondo me Manodi Stefano Ricci e Giovanna Anceschi ha raggiunto punti molto alti un po’ da tutti i punti di vista. A me sembra bellissima. Sicuramente anche Ventiquattrosi distingue, come dici tu, dagli altri supplementi (a me sono molto piaciute alcune copertine di Spider). Ho apprezzato, fin dal primo momento, Diario della Settimanacon la sua veste grafica volutamente povera, lontana mille miglia da L’Espresso, Panorama e tutti gli altri settimanali. Per parlare di cose meno recenti, il progetto del ’95 di Tassinari e Vetta di Casabella, La Golae Alfabeta di Gianni Sassi. A me piacevano molto, almeno nel primo periodo delle pubblicazioni, anche L’Illustrazione Italianae Tempo Illustrato. E ancora, nella direzione della “grafica illeggibile”, Extrasupplemento del Manifesto progettato da Piergiorgio Maoloni. Credo che quel supplemento, che piacesse oppure no, ha creato l’occasione di una discussione animata sulle possibilità e sui limiti della grafica digitale e in generale sulle nuove tecnologie.
E Dolce Vita,che ti ha vista direttamente coinvolta?
Dolce Vita è stata sicuramente una pubblicazione anomala nel panorama editoriale italiano. A partire dal formato lenzuolo che la distingueva dagli altri mensili. Per continuare con la grafica, invadentissima, che percorreva tutte le pagine del giornale. La rivista era nata da un progetto di Paolo Cesari, Daniele Brolli e Igor Tuveri ed era diretta da Oreste Del Buono. L’idea fondamentale era quella di mettere in connessione i vari linguaggi con il rifiuto dichiarato di ogni settorializzazione. Il punto centrale era comunque la narrazione. E quindi non solo una serie di racconti inediti come quelli di Carver, Cheever, Almodovar, Isherwood -per citarne solo alcuni- ma anche la realtà raccontata attraverso i reportages degli scrittori (Aldo Busi sull’Algeria, Garcia Marquez sul caso Montesi, Enrico Deaglio con una serie di bellissimi reportages che sono stati successivamente raccolti in volume da Sellerio). La narrazione attraverso il fumetto (Magnus, Mattotti, Loustal, Igort, Burns, Swarte, Carpinteri, e anche i primi lavori di Gabriella Giandelli, Stefano Ricci, Francesca Ghermandi), attraverso le illustrazioni, con le fotografie e con la grafica. C’era anche Onze, giovanissimo, che lavorava con fotocopie deformate e collages: le sue copertine erano molto forti e d’impatto. Io andavo a Bologna per una settimana al mese, quando si chiudeva la rivista, e quando arrivavo io la Matematica s’incontrava con l’Arte. Infatti –allora non c’erano i computer- la rivista s’impaginava dovendo fare una serie molto complicata di conteggi e di equivalenze fra punti tipografici e millimetri per far sì che la fotocomposizione e il fotolito potessero lavorare contemporaneamente. I titoli venivano fotocopiati da una serie di alfabeti disegnati appositamente da Beppe Chia, successivamente venivano montati, lettera per lettera, per poi essere fotocopiati nuovamente. Io facevo dei menabò disegnati minuziosamente e addirittura colorati a mano per vedere l’effetto finale. Tutto il procedimento d’impaginazione era ancor più manuale di quanto le già arretrate tecnologie di allora non consentissero. Tutto questo dava però alla rivista una sua unicità all’interno di un mercato che si dirigeva a passi sempre più veloci verso la standardizzazione e la specializzazione. E’ durata soltanto due anni (dal 1987 al 1989) ma per me è stata un’esperienza assolutamente straordinaria, anche se non mancavano le tensioni, le gelosie e gli scontri.
Negli ultimi tempi la comunità internazionale dei grafici si é posta il problema della necessità di un recupero della grafica di comunicazione nei confronti di quella pubblicitaria, o perlomeno di un ribilanciamento delle proporzioni. Come vedi la questione tu?
Se devo essere sincera, non sono molto interessata ai dibattiti sulla “grafica di pubblica utilità”. Ho il forte sospetto che laddove cominciano a fallire le teorie di marketing (Enrico Ghezzi ha usato la definizione “l’orribile cecità del mercato” riferendosi alla difficoltà di previsione dei successi o degli insuccessi dei prodotti televisivi) i pubblicitari decidano di porsi qualche problema di carattere etico.
Mi pare che ci sia un bisogno assoluto di buona grafica, di grafica intelligente, in moltissimi campi. Mi pare che ci sia bisogno di acquisire la consapevolezza delle proprie responsabilità e delle proprie possibilità. In questo senso molto più importante della definizione di “per chi si lavora”, mi pare quella di “come si lavora”. Sono convinta che i grafici –così come anche gli illustratori- possano contribuire in qualche modo a “educare” gli occhi della gente. Una scelta -non casuale ma che ha dietro una riflessione- di colori, caratteri, materiali è, secondo me, la strada per fare buona grafica. Mi sembrerebbe già questa una grafica “di pubblica utilità”. Mi sembrerebbe “di pubblica utilità” smettere di spezzettare i testi con titoletti, simbolini, disegnini inutili, fondini colorati, contribuendo così a questo processo di “disalfabetizzazione” creato dai grandi gruppi editoriali. Pare che un gran numero di persone non sia più in grado di leggere oltre cinque righe di seguito. Il protagonista del film I cento passia un certo punto, guardando un paesaggio, dice più o meno così “La rivoluzione è nelle cose belle”. Ecco: mi pare che il punto sia questo.
Hai ragione, é diventato veramente orribile leggere certe riviste. Lo specchiodella Stampa é uno di questi esempi negativi, una cosa illeggibile, piena di evidenziature, di rimandi ad altre parti della pagina, come se non potessi essere io, lettore, a stabilire cosa é più o meno importante. E’ come quando qualcuno ti presta un libro, o peggio ti restituisce un libro che devi ancora leggere, e lo trovi pieno delle sue sottolineature. Per me non lo si può più leggere, mi devo armare di gomma e darmi da fare……. Riguardo alla “pubblica utilita” della grafica sono quasi del tutto d’accordo con te. Ma tu come ti poni di fronte alla pubblicità che sostanzialmente significa dare alla gente (ai consumatori) quello che essi si aspettano di ricevere? Perchè nonostante ciò che pensano i vari Oliviero Toscani le campagne pubblicitarie, anche le sue, giocano su ciò che la gente ha già metabolizzato, su ciò che é diventato se non stereotipo nè del tutto accettabile, perlomeno d’effimera attualità. Non per niente ai tempi delle campagne Benetton imperversava la TV del dolore….
Non m’intendo molto di pubblicità, non lavoro nel campo della pubblicità. Ho deciso di occuparmene il meno possibile. Ogni tanto mi capita di vederne qualcuna che mi diverte o che mi sembra particolarmente intelligente. Ma, in generale, la seguo troppo poco per poter esprimere un giudizio.
Tornando alle edizioni Orecchio Acerbo, per marzo é prevista l’uscita dei prossimi due titoli: il primo libro è illustrato da Pedro Scassa, un altro degli illustratori con cui hai una collaudata consuetudine di collaborazione. Gli autori del secondo vengono dal Giappone. Chi sono, puoi raccontarci qualcosa di loro e di questi due nuovi titoli?
Noialtri, bambini di strada è il libro di Manuela Andreozzi e Pedro Scassa. E’ una storia ambientata a Rio de Janeiro che Pedro e Manuela hanno scritto qualche anno fa. Si tratta di un libro molto duro, con un linguaggio convulso e delle immagini in cui è presente un continuo contrasto fra la strada (sempre in bianco e nero) e i personaggi (a colori) che sono tutti rappresentati con una tecnica che li deforma, quasi come altro dagli uomini. E’ un libro in cui Pedro e Manuela non salvano nessuno, non lasciano alcuna prospettiva di soluzione. E’ un libro drammatico che speriamo aiuti i bambini che lo leggeranno a prendere coscienza delle enormi ingiustizie che oggi –a Rio come in moltissime altre parti del mondo e anche in Italia- esistono nei confronti dei bambini.
Le tavole di Yoshihiro Ono hanno vinto l’ultima edizione del concorso di illustrazione di Chioggia. La storia è questa: un buco nero si apre all’improvviso nel cuore di una città. Con grande voracità, inghiotte tutto ciò di cui gli adulti si vogliono disfare. Trangugia carcasse e ingurgita ferri vecchi. Quando ormai tutti si sono abituati alla sua presenza, ecco che all’improvviso scompare. Per ricomparire, cupo e minaccioso, nel cielo e rivomitare tutto ciò che è stato costretto a ingoiare. Il libro sà La città bucata. Il testo è di Satomi Ono e, fino a un mese fa, non lo avevamo ancora letto. Ora che è arrivato, integrato da alcune illustrazioni che non erano nel concorso, siamo molto contenti. Penso che sarà davvero un bel libro.
Hai citato, parlando del tuo incontro con Fabian Negrin, lo scrittore Coetzee. Che stimoli ti danno per il tuo lavoro i libri, il cinema, la musica? Ci puoi dire quali sono le tue preferenze, quelle di sempre e le più recenti, in questi campi?
L’idea giusta per un lavoro secondo me viene sempre da un complesso culturale che quanto più è ricco, tanto più ti aiuta. Faccio un esempio: quando mi sono occupata della pubblicazione del Comune di Roma I numeri della cittàche divulgava tutti i dati sui cittadini romani -cosa mangiano, quali nomi sono più usati, quali cause di morte sono le più frequenti etc.- stavo leggendo il libro di Hans Magnus Enzesberger Il mago dei numerie avevo da poco visto il lavoro di un fotografo americano sulle targhe delle vie di Manhattan. Inoltre ero appena tornata da un viaggio a New York dove avevo guardato moltissimi libri e mostre. Questo insieme di cose ha sicuramente influenzato moltissimo il progetto di quella pubblicazione.
L’interesse per il teatro mi ha sicuramente molto aiutato nel lavoro di questi ultimi anni sia con l’Eti che con il Teatro di Roma. Quest’interesse è quello che mi ha consentito di metterci qualcosa in più. Ad esempio nel film che Martone ha tratto da I dieci comandamenti,la sequenza iniziale ha preso spunto dall’idea del manifesto (l’immagine di un bombardamento su Napoli) e questo –oltre che un onore per me- è stato il segno di una sintonia che derivava anche dalla conoscenza del suo lavoro.
Gli scrittori che preferisco sono Carver, McEwan, Simenon, i primi libri usciti in Italia di Kureishi. Per quanto riguarda la musica sono una “dylaniata”. Il film più bello che ho visto negli ultimi tempi è La Ciénagadi Lucrecia Martel.
A questo punto ti devo chiedere cosa pensi di Fat-pencil. Però devi essere sincera….
Che potenzialità, e che limiti, vedi in questo progetto, così per come si sta sviluppando?
Mi sembra che Fat-Pencil sia un’ottima iniziativa soprattutto se riuscirà a creare una possibilità in più di discussione intorno ai temi dell’illustrazione, del fumetto ma anche più in generale dell’editoria, della scrittura.
Non so se si riescano a vendere gli originali attraverso Internet: lo auguro a te, e a tutti gli illustratori di Fat-Pencil. Ma, se anche fosse difficile, va bene lo stesso. E’ comunque una possibilità: quella di vedere nuovi illustratori che magari ancora non hanno avuto modo di pubblicare molto, quella di creare occasioni di lavoro, e, soprattutto, la possibilità di essere liberi di mostrare quello che interessa di più.
Aprile 2002