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E poi?
Intervista a Raphael Urwiller e Mayumi Otero

Avete lavorato a questo libro pensandolo come una successione di immagini surrealiste, o come un racconto, una narrazione?

Il libro è un avvicendarsi delle stagioni, che propone un paesaggio fisso decostruito e ricostruito da 6 personaggi/attrezzi man mano che trascorrono i mesi .

Le scene sono abitate da una folla di personaggi (dallo Yeti a Venere, dal bambino-neve alla tartaruga-sasso, dagli uomini-fungo ai giganti della montagna) le cui storie hanno una linea temporale propria e coerente man mano che si passa da un’immagine all’altra e da una stagione all’altra.

Le traiettorie di questi personaggi talvolta si incontrano, lo Yeti insegue gli sciatori, le slitte si scontrano… È un libro che si legge e si rilegge per seguire ciascuna micro-storia, tutti i piccoli percorsi narrativi che s’intrecciano con il grande ciclo delle stagioni.

È una mescolanza fra il piacere di un libro/folla in cui cercare ogni personaggio e una raccolta di immagini legati alle stagioni, una versione deviata degli inventari illustrati.

Una grande coreografia dissonante che alla fine trova un’armonia.

Qual è il vostro metodo di lavoro (pastelli, inchiostro…)?

È un grande caos. Lavoriamo a quattro mani, ci scambiamo schizzi, sperimentazioni, correzioni, collage…

Quali sono i vostri punti di riferimento nella letteratura per ragazzi? Cos’è che vi spinge a creare dei libri per bambini?

Siamo molto attratti dagli autori che riescono a costruire dei percorsi trasversali, che toccano bambini e adulti, investendo sul libro per bambini con ambizione e follia! Ci sono degli autori modulari, Komagata, Paul Cox o Marion Bataille, quelli sfuggiti all’underground come BlexBolex o Jean Lecointre, i classici impertinenti – Sendak, Topor, Ungerer o Gorey – gli autori inetichettabili della casa editrice Harlin Quist, gli incredibili precursori come Jean de Brunhoff o Winsor McCay, senza contare il gran numero di libri pazzeschi che abbiamo trovato cercando a lungo in Corea o in Giappone.

Il libro per bambini è un mezzo di una libertà incredibile, perlomeno in Francia. Anche l’editore ha grande importanza nella definizione del terreno di gioco. Béatrice Vincent, di Albin Michel, in questo caso ci ha spinti con molta malizia ad aprire i varchi di una certa follia.

È un esercizio di grande difficoltà all’altezza della sfida: il formato, la narrazione, il colore, il disegno… in realtà serve una grande struttura per far funzionare un tale scompiglio.

Cosa rappresenta l’elemento ricorrente degli uomini-attrezzi nella vostra opera?

Lavorando a due mani, abbiamo preso l’abitudine di costruire un’immagine, discutere, definire gli elementi di senso, gli elementi grafici, suddividerci letteralmente la costruzione dell’immagine. Abbiamo molto studiato gli autori che utilizzano principi modulari, assemblaggi, giochi di costruzione, fra architettura e letteratura, siamo arrivati a definire Icinori come un territorio su cui costruiamo oggetti, libri e progetti, un luogo che popoliamo progressivamente.

Il motivo degli uomini-attrezzi è arrivato in modo del tutto naturale, sono dei personaggi che si frappongono fra la finzione e il lettore.

Sono consapevoli del carattere fittizio dello scenario, arrivano persino a manipolarlo, sono i registi della messa in scena che è il libro. Consentono di includere il lettore, bambino o adulto, nella finzione – il libro è come una prova generale dove i moduli e i meccanismi della scena sono visibili, i lettori siedono nella poltrona del regista, e azionano le scene girando le pagine.

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