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I battiti di Cuore al tempo della globalizzazione

“Non si può mai dire di quest’acqua non ne berrò”, è in Sicilia il metaforico ammonimento verso chi –sprezzante- rifiuta un’esperienza dei sensi o dell’intelletto, nello stesso tempo sottolineando l’imprevedibilità della vita –e, nel mio caso, della scrittura!- che può portare non solo a bere, ma anche a gustare golosamente quella rifiutatissima acqua.
Non avevo infatti mai pensato di scrivere un racconto per ragazzi, e meno che mai di rifarmi come modello narrativo a Edmondo De Amicis, totalmente rimosso insieme al ricordo della mia bisognosa infanzia anni cinquanta: al freddo, ai vestiti rivoltati, ai racconti di Cuore delle elementari. Uno scrittore, dunque, per me sostanzialmente sconosciuto e -in base ai frammentari ricordi infantili- pregiudizialmente rifiutato: l’esatto contrario –pensavo- della mia ricerca espressiva, tesa sia nella poesia che nella narrazione a evitare ogni buonismo consolatorio, ogni ovvia rima tra cuore e amore.
A farmi ripensare all’attualità di De Amicis è stato Goffredo Fofi –per rigore critico e vigore etico, un’eccezione, oggi, in Italia- durante un incontro palermitano, a Piazza Marina, in una mattina di accecante luce decembrina del 2006; come ogni volta che c’incontriamo, animatissima era la discussione.
Quella mattina la conversazione si incentrava sul tema del viaggio e sul racconto d’avventura, di cui solo i migranti, spostandosi senza certezza d’esito da un continente all’altro, oggi possono essere protagonisti: l’avventuroso viaggio verso l’ignoto di adulti, ma anche di ragazzi soli, che su gommoni, precarie barchette, navi da rottamare, attraversano il mare. In gioco, per chi nella prospettiva di un futuro migliore lo intraprende, è la vita stessa; per molti di loro, dispersi tra gli squali e le onde del mare africano -come Pirandello chiamava il canale di Sicilia- il viaggio non diventerà mai avventura: atona disgrazia senza epopea di parola, senza nemmeno identità di nome.
Invitandomi a partecipare alla tavola rotonda L’avventura delle migrazioni: dalle Ande agli Appennini -organizzata per il marzo successivo a Galassia Gutenberg a Napoli- Goffredo Fofi mi suggerì infine di rileggere il racconto deamicisiano Dagli Appennini alla Ande, e di pensare a una riscrittura come possibile contributo al dibattito.
Dissi di sì, avventatamente. Un compito arduo, la rivisitazione creativa di quel racconto, incentrato sull’inestricabile intreccio di un doppio archetipo -l’avventura del viaggio, e l’amore per la madre.
Cominciai con la lettura di Cuore. Lessi e rilessi. Tutto: per possedere ogni riga di quel romanzo di formazione, in cui i racconti rappresentano le tappe di una presa di coscienza storica, sociale e –caso rarissimo in Italia- laica. Ma anche per cercare di capire dall’interno il sapiente montaggio del suo linguaggio: la scelta, consapevole e lucida, di una scrittura d’intervento che coraggiosamente sacrifica le ragioni della letteratura alla necessità espressiva di far breccia, avvincere e modificare il sentire e il pensare dei giovani lettori. Riuscendoci per più di un secolo.
La fase più difficoltosa di questa riscrittura -al dibattito napoletano portai infatti solo la prima parte del lungo racconto, che completai successivamente- è stata la trasposizione –culturale ed esperenziale- dell’ottocentesco protagonista nella dimensione contraddittoria di una contemporaneità che omologa comportamenti e desideri, mantenendo però una profonda divaricazione d’ingiustizia tra consumismo e privazione, Nord e Sud del mondo.
Non bastava rovesciare geograficamente il racconto, trasformando il genovese Marco nel marocchino Youssef, esemplare però delle tante minoranze etniche presenti in Italia: per restare fedele al modello bisognava alterarlo, tradirlo. Ho perciò costruito attorno a Youssef, il protagonista del mio racconto, una storia familiare e una psicologia un po’ diverse rispetto al suo antenato: Youssef – come ogni ragazzo magrebino di oggi- simultaneamente guarda la tivù e va all’hammam, va pazzo per il rap e anche per le canzoni tradizionali di Um Kalthum, ama la sua terra, ma non vede l’ora di lasciarla per andare In Italia in cerca di sua madre, ma anche verso nuove avventure di vita insieme al suo inseparabile amico Fouad. Il protagonista del mio racconto Dall’Atlante agli Appennini -in verità quasi un romanzo- inoltre non è un bambino tutto d’un pezzo, come il suo predecessore Marco: buono sì, ma testardo -talvolta anche disobbediente e trasgressivo- con la coscienza e le tentazioni degli adolescenti di oggi; lascia la scuola, ad esempio, contro il volere della sorella e del cognato, a cui la madre, l’aveva affidato, partendo all’avventura senza il loro consenso per l’Italia.
Youssef non è un personaggio reale, ma di profonda verità. La storia delle sue esperienze di vita è lo specchio di tante oscurate storie di ragazzi migranti soli, a volte anche di sette, otto anni, i cui viaggi sono spesso sponsorizzati da organizzazioni criminali: per farne –di quei ragazzi- oggetti sessuali, di riciclaggio d’organi, pusher, mendicanti.
Per scrivere Dall’Atlante agli Appennini ho incontrato e parlato a lungo con gli undici ragazzi magrebini ospiti di una comunità di accoglienza per minori migranti non accompagnati –questa la definizione legale della loro condizione- che si trova vicino Caltagirone, dove abito. Avventurose e a volte tremende odissee –le loro storie- che costituiscono lo spessore di vita, invisibile ma pulsante, sotto il visibile profilo narrativo di Youssef.
Il mio rapporto col testo di Edmondo De Amicis non riguarda solo la struttura narrativa, ma anche una profonda condivisione del respiro etico e sociale -ovviamente reinterpretato nella contemporaneità- che motiva Cuore. La ricerca e il ritrovamento della madre, per il protagonista del mio racconto, coincide infatti con la presa di coscienza di un nucleo di valori -quali l’istruzione, l’onestà, la giustizia sociale, la solidarietà, il riconoscimento e il rispetto dell’altro- che, in tempi di dittatura dell’economia e di crisi di un modello di mondo a carattere antropocentrico, non sono affatto scontati, ma vanno culturalmente riconquistati, e con forza ribaditi.
Perché la barbarie di nuovo si profila minacciosa nell’orizzonte storico: con la criminalizzazione dei clandestini, la caccia al mendicante, la persecuzione del diverso, gli incendi di campi Rom, il ritorno delle svastiche camuffate da modernità.
Maria Attanasio, luglio 2007

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