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IMPASSE

Lo scaffale

A intervalli regolari l’onda si infrange sulla parete in fondo alla libreria scaricandovi il suo tesoro. Questa marea va a costituire lo scaffale dei picturebooks, che mensilmente si gonfia e sgonfia di nuovi titoli che sostituiscono quelli vecchi producendo un rinnovamento di tutta, o quasi, l’offerta. Oggi tantissime librerie possiedono questo specifico scaffale, ma non è sempre stato così. Negli anni ’90 forse solo le due o tre grandi librerie per ragazzi esistenti allora in Italia lo avevano, mentre le librerie generaliste al massimo contemplavano una zona dedicata complessivamente a tutti i libri per bambini: romanzi, filastrocche, fiabe, libri-gioco, non-fiction ecc. Verosimilmente possiamo dire che questo nuovo contenitore si è formato ed è entrato nella percezione generale negli ultimi quindici anni. All’inizio degli anni Duemila, prima Orecchio acerbo, poi Topipittori, poi un altro paio di case editrici cominciarono a pubblicare esclusivamente (o quasi) albi illustrati. Come si diceva, esistevano già prima picturebooks fatti in Italia (vedevo i libri di Arka e di Fatatrac nella libreria dei Denti a Milano, per esempio), ma i picturebooks che si cominciarono a fare nel nuovo millennio erano in qualche modo diversi, più consapevoli di se stessi come medium.Col tempo, questi picturebooks sono diventati un fenomeno che interessa moltissime persone, si è assistito a una moltiplicazione esponenziale di titoli, illustratori, autori, case editrici, bibliotecari esperti, corsi di illustrazione, bloggers, testi critici, nonché delle misure in centimetri del formato di questi libri e i giornali hanno incominciato a presentarne specifiche recensioni. Viene da pensare che si sia diffusa una vera febbre da picturebook. Ottimo, sembrerebbe.

Se non che da molto tempo, quando in varie librerie compio la mia visita settimanale a questo scaffale che nel mio piccolo ho contribuito nel bene e nel male a creare, quello che vedo e leggo non mi pare così meraviglioso. Anzi, direi che la maggior parte dei prodotti che vi si trova si possa definire mediocre, scarsa o perfino sconcertantemente brutta. Oltre al dispiacere, ne ricavo soprattutto una sensazione di inutilità. Non parlo della sana inutilità che è propria della letteratura, nel senso di puro cibo per l’anima slegato dalle esigenze pratiche di tutti i giorni, quanto piuttosto della sensazione di trovarmi davanti a libri che se non esistessero nulla cambierebbe e nessuno ne sentirebbe la mancanza. Certo, oggi abbiamo uno scaffale che prima non c’era, mancava, e che rappresenta dunque un’importante opportunità in più. Quello per cui si è lavorato sodo, però, era uno scaffale che sarebbe dovuto essere pieno di importanza, di pregnanza, non un contenitore per il contenitore in sé, con l‘idea che basta che ci sia. E non è che non siano usciti ed escano alcuni libri di grande interesse, ovviamente. Il problema è che la maggioranza dei picturebooks lì parcheggiati è disegnata da persone che non sanno disegnare, scritta da scrittori privi di belle storie da raccontare e pubblicata da editori improvvisati. Cosa è successo?!

Editori

Uno dei problemi che certo non riguarda tutti, ma sicuramente molti editori, temo sia la tanto diffusa nonché fuorviante convinzione che i libri per bambini vendano, che siano l’unico settore dell’editoria che ‘tira’, da cui la voglia, in sé legittima, di tantissimi di buttarsi nel ‘business’. Editori consolidati ma sprovvisti di questo settore e altri nati per l’occasione hanno iniziato a immettere nel mercato decine, centinaia di albi illustrati, il tipo di libro per bambini più nuovo e apparentemente interessante, in un fenomeno editoriale che ha caratterizzato gli ultimi quindici anni in modo così massiccio da coinvolgere marchi grandi e piccoli, ricchi e poveri, Il Sole 24 ore e Terre di mezzo, Laterza e Minibombo, il gruppo Abele e il Touring Club, i neogotici e le mamme online… Non sarebbe questo un problema, non fosse che per lanciarsi in questa, come in qualunque impresa occorre una competenza che qui i più dimostrano di non avere. Il picturebook è, nella sua forma ideale, un medium letterario-visivo-grafico di estrema complessità, aumentata dal fatto che si rivolge teoricamente all’infanzia, un pianeta affacinante e sconosciuto intorno al quale ben pochi dimostrano, in realtà, di ruotare. Ci si è chiesti, in questa corsa, che cos’è un libro per bambini, e prima ancora chi sono i bambini, cosa sentono, come vedono il mondo e che tipo di storie li possono interessare? In tanti casi palesemente no. E’ ovvio che non c’è una risposta semplice o univoca a queste domande, ma sarebbe fondamentale almeno porsele. Essendo spesso gli stessi imprenditori, cioè gli editori, incompetenti in materia, questi non funzionano da quel naturale filtro che l’editore dovrebbe essere rispetto ai prodotti che autori e illustratori improvvisati propongono loro, o che loro stessi commissionano a persone non adeguatamente formate, quando non addirittura a se stessi, nella doppia veste anche di autori. La mancanza di filtro e l’amatorialità sostituita alla professionalità hanno sicuramente contribuito a riempire il nostro scaffale di insignificanza, mediocrità e bruttezza. C’è anche chi magari si è buttato nel calderone non necessariamente scorgendovi un’opportunità economica, ma semplicemente perché è stata ed è la tendenza del momento, per narcisismo di massa, per il gusto di potersi definire editori, in fondo con poco (si tratta pur sempre di libri di 32 pagine, con un testo breve e immagini ‘per bambini’. Chi non li può fare?).

Come in tutte le cose, ci sono grandi eccezioni e si è assistito, in questo profluvio di nuovi marchi e collane, alla lodevole comparsa di titoli necessari, soprattutto però – occorre dirlo – per quel che riguarda libri tradotti da altre lingue e provenienti da altre, più consolidate, tradizioni. Mentre gli albi italiani, quando anche hanno uno dei tre elementi costitutivi (testo, immagini, aspetti grafico-materiali del libro) indubbiamente ben fatto, sono spesso carenti in uno degli altri due o in entrambi, col risultato che ci si trova comunque di fronte a un libro non riuscito, sbilanciato, zoppo.

Illustratori

Con l’esplosione del picturebook e la sempre maggiore considerazione con cui lo si è guardato, è apparso via via più qualificante essere illustratore. Se prima questo era un mestiere, che passava peraltro molto inosservato, fare l’illustratore o l’illustratrice oggi è prestigioso. Gli illustratori vanno di moda, come gli hipsters. C’è perfino un look particolare (chiunque sia stato alla Fiera del libro di Bologna lo sa) e a volte questo sembra bastare. Come conseguenza, gran parte dell’illustrazione ritrovabile in questi libri è diventata modaiola, con tutto ciò che ne può derivare rispetto all’autenticità dell’immagine. La moda ha generato poi un’infinità di corsi d’illustrazione in cui sembra che l’unico scopo di questo mestiere sia trovare UNO stile, senza minimamente preoccuparsi del fatto che questo corrisponda davvero alla storia narrata, o meglio alle infinite storie narrabili e diversamente illustrabili. Questi corsi, di solito settimanali o anche solo di un weekend, ricordano le pubblicità che mostrano un ‘prima’ e un ‘dopo’ promettendo improvvise perdite di peso o ricrescite dei capelli. Illudono che per imparare a disegnare basti poco. E che basti poco anche per fare un libro per bambini. Non c’è da sorprendersi se nella maggioranza dei picturebooks dello scaffale si coglie quasi una fretta, una brama di finire le immagini nel minor tempo possibile, una mancanza di piacere provato nel passare del tempo a disegnare. Spesso, per esempio, quello che è palesemente solo un primo schizzo finisce direttamente nel libro stampato o si ricorre a pastiches al computer facendo passare questi espedienti per uno stile. Si fatica ad avvertire, in questi libri, ma anche più in generale nei prodotti inviati per esempio ai concorsi di illustrazione a cui ho partecipato come giurato, l’amore vero per il disegno, gli anni passati a imparare ad usare gli strumenti di quello che si vorrebbe il proprio mestiere. Il canale di formazione – o autoformazione – per molti giovani che vorrebbero fare gli illustratori pare sia, oltre ai corsi mordi e fuggi, soprattutto la rete, in particolare i blog dedicati, e ciò non aiuta. Molte di queste ‘pagine’ non sono altro che autopromozione di chi le scrive, dove gli illustratori in erba si aggirano sperando di trovare la competenza senza dover studiare (rarissime le volte in cui si sente la parola studio nei discorsi su come fare picturebooks). In questo boom dell’illustrazione, paradossalmente, è proprio il disegno che latita: nei nostri picturebooks quasi nessuno sa più disegnare un volto, il corpo umano, rappresentare uno spazio non piatto, utilizzare la prospettiva…. Anzi, si finisce perfino con il teorizzare la non necessità di saper disegnare per essere illustratore. Come se gli idraulici iniziassero a dire che cambiare la guarnizione di un rubinetto è una capacità sopravvalutata. In questo contesto, i pochi giovani illustratori che invece coltivano il disegno – cioè le basi – che scelgono vie non facili, che non ripropongono un’ennesima versione delle cinque o sei variabili stilistiche più di successo mutuate dalla Francia, che non si fermano all’imperante decorativismo da carta da parati, che non si spaventano davanti alla ‘fatica’ non aggirabile richiesta da qualunque lavoro serio sono da considerare quasi eroici.

Il moderno

Lo sprezzo ostentato per il disegno, e ancor più per un disegno realistico e rifinito, è un frainteso del moderno. Il moderno, come movimento artistico, è stato un elemento di sana rottura e ha dato i suoi frutti in certi anni, trovando un apice, nel campo dell’illustrazione per l’infanzia, per esempio in Munari e Lionni. Da quella tradizione, la tradizione munariana, però, mi sento di dire che non è più possibile trarre niente di interessante, di importante. Dopo Iela Mari quella vena sembra essersi esaurita. E quella vena nei libri per bambini ha già dato fin troppo, se si pensa che il moderno è antinarrativo per definizione, un tentativo di lasciare che i soli elementi formali diano senso all’immagine, che loro, in sè, diventino l’oggetto da ammirare, cosa che forse in pittura o in scultura può funzionare, ma che, nell’illustrazione di libri per bambini rischia di non servire a raccontare o ad arricchire di significato i testi. Se qualcuno c’è riuscito, in una fase di intensa sperimentazione negli anni Cinquanta-Sessanta, di recente non è più comparso nessun libro di questo tipo che sia degno di nota. L’aver continuato a perseguire lo stile tipico degli anni in cui moltissimi graphic designers si tuffarono nel campo dei libri per bambini caratterizzandoli con gli elementi tipici del loro mestiere (colori piatti, sfondi bianchi, forme geometrizzate…) mi sembra produca oggi libri adulteggianti, asfittici, al più ‘eleganti’, vintage, con neanche il fattore novità che possedevano i libri di Munari degli anni ’40, per non dire dei Russi degli anni ‘20. Ci ritroviamo dunque con dei finti libri nuovi, disegnati al minimo o disegnati male (chiediamo a qualunque bambino/a se gli/le piacerebbe disegnare come Herbauts oppure come Innocenti).

E’ evidente, e io penso deleterio per il nostro scaffale, che il gusto è oggi ampiamente ancorato al moderno e questo determina una sorta di dittatura del bidimensionale (dall’anoressia ‘minimal’ alla bulimia floreal-decorativa) alla quale difficilmente ci si sottrae, un’epoca di ‘fighetteria’che diventa lampante nelle giurie internazionali e che finisce col far preferire il brutto non ancora visto al bello di tipo classico, un rifiuto di qualunque tradizione figurativa, un patologico amore per la novità a tutti i costi, un’autentica allergia verso il saper fare quando questo si palesa in una tecnica che ha radici lontane nella storia del visivo. In particolare il realismo è disprezzato come modello perché in fondo in ben pochi oggi saprebbero trarne lezione, mentre si idolatra il moderno, temo, perché è facilmente riproducibile. Varrebbe la pena notare come, se ci sono stati due libri che hanno colpito l’immaginario globale nel periodo recente, anche in termini di innovazione, questi sono stati La straordinaria invenzione di Hugo Cabret di Brian Selznik e L’approdo di Shaun Tan (non due picturebooks in senso stretto, ma comunque due libri illustrati per bambini e ragazzi) che proprio attraverso un tipo di immagine figurativo-realistica, invece, sono riusciti a raccontare le loro storie in modo insieme così interessante e ‘nuovo’.

Naturalmente il discorso critico sul moderno vale per picturebooks che io stesso riconosco essere quelli fatti con più convinzione e più passione, se pure sulla base di un gusto oggi diverso dal mio (sono stato, in un momento di abbaglio, moderno anch’io). E’ ovvio che il problema più imponente, quello che sta facendo verosimilmente anche danni alla formazione del gusto infantile, riguarda soprattutto quella parte di picturebooks (e altri prodotti editoriali) fatti senza nessun tipo di gusto, di consapevolezza, di cura, che, come primo colpo d’occhio, sembra riempire l’angolo per bambini delle librerie. Il rosa, i brillantini, l’insopportabile stile finto-bambino o derivato dai più brutti cartoni animati sono qualcosa di abominevole di cui qui non mi fermerò a parlare. Ma è chiaro che né la sciatteria di questi prodotti non meditati né la fighetteria dei picturebooks ‘sofisticati’ ci sta aiutando a realizzare buoni libri per bambini.

Autori

Nel picturebook, ovviamente, l’elemento importante oltre alle immagini è il testo. Eppure, spesso, in un libro del genere – breve e con l’illustrazione che occupa gran parte della pagina – ci si preoccupa pochissimo delle storie. Questo può dipendere dal fatto che l’impulso iniziale di tanti picturebooks proviene dagli stessi illustratori, che non necessariamente hanno una storia (bella) da raccontare o un’idea di testo attorno a cui far ruotare le immagini, ma più semplicemente cercano un approdo per le proprie tavole. Il libro finisce allora per essere un pretesto e trasformarsi in una galleria di immagini non necessariamente legate fra di loro, non consecutive, non narrative. Il picturebook, peraltro, non necessita inesorabilmente di un ‘racconto’, o meglio di un racconto ‘sensato’: non dimentichiamo che, secondo Maurice Sendak, il medium parte da Ralph Caldecott che nell’800 iniziò ad illustrare Nursery Rhymes, un tipo di testo assolutamente nonsensicale, ma comunque coerente al proprio interno, compatto e geniale. Perfetto per l’infanzia e simile a lei. In parte il problema è anche che non abbiamo, in Italia, illustratori capaci di scrivere testi come lo sono Anthony Browne, Chris Van Allsburg, Tomi Ungerer, Raymond Briggs, Judith Kerr, Philippe Corentin, Grégoire Solotareff, Claude Ponti, Chris Wormell, Alexis Deacon, Jon Klassen, ecc. Ma non esistono nemmeno, a differenza del mondo anglosassone per esempio, dei puri scrittori di picturebooks degni di nota come i grandissimi Margaret Wise Brown, Allan Ahlberg, Julia Donaldson, Michael Rosen, Jon Scieszka…che hanno passato la vita intera a pensare e scrivere albi illustrati per bambini. Anche questo è, e dovrebbe essere, appunto, un mestiere, cioè non lo spazio in cui finiscono da un lato velleità poetiche adulte che non hanno trovato spazio altrove e dall’altro tendenze pedantemente educative. Perché questi sono i due rischi che si riscontrano nella maggior parte dei testi di picturebooks sul nostro scaffale: sbrodolamenti lirici lontanissimi dalla vera poetica e lingua dell’infanzia o (come accade anche in gran parte dei romanzi per ragazzi) libri – illustrati – a tema.

Relativamente al testo all’interno del picturebook, forse è bene anche notare come l’importanza dell’indissolubile relazione fra questo e le immagini sia qualcosa di così noto a tutti da essere diventato perfino un luogo comune, ripetuto fino alla nausea ogni volta che si disquisisce di questo medium. Stupisce allora, essendo questa una nozione così diffusa, la scarsità di esempi veramente riusciti di questa relazione, cioè quanti pochi siano i picturebooks dove veramente parole e disegni si completano, smentiscono, compenetrano, alternano, sorprendono, disturbano anziché pedissequamente ribadirsi, ripetersi, doppiarsi o banalmente ignorarsi. Manca, evidentemente, nonostante tutte le predicazioni, la consapevolezza che, quando si scriva un testo per un albo illustrato, questo dovrebbe essere non un racconto compiuto e finito in se stesso, ma un testo ‘aperto’, ellittico, poroso, ambiguo, così da consentire alle immagini di finire di raccontare la storia. A caccia dell’orso (di Michael Rosen) insegna.

Il peccato originale

Forse c’è stata una spinta iniziale che ha contribuito a questa situazione, un ‘peccato originale’ diciamo. I primi picturebooks ‘nuovi’ in Italia, e parlo anche di me in prima persona, li abbiamo fatti (in un’epoca in cui la stessa parola picturebook era per iniziati) come se abitassimo a New York, Parigi o Londra. Da lì arrivavano i libri che ci piacevano, i libri che hanno risvegliato in noi la voglia di realizzare oggetti simili. Non avevamo, però, la loro lunghissima tradizione in questo campo, una tradizione maturata nel corso di più di un secolo e che a sua volta ha generato in quei paesi un vasto pubblico di lettori, di normalissime famiglie che comprano albi illustrati da leggere per/con/insieme ai bambini. All’interno di quelle tradizioni, così consolidate, c’è spazio anche per libri ‘pazzi’, eccentrici, adulteggianti, sostenuti però dalla enorme quantità di bei libri ‘normali’, ‘medi’, comunque di buonissima fattura. E’ come se noi avessimo iniziato dalla fine, dai libri stravaganti, d’avanguardia, che piacciono tanto agli adulti, senza avere radici solidamente piantate nel terreno. Con la testa fra le nuvole di Brooklin, non si è pensato che i nostri libri si sarebbero poi dovuti vendere e leggere a Cascina Gobba e Canicattì.

Deve essere chiaro che questo modo di fare i nostri primi picturebooks è stato necessario in quel momento specifico, è servito per cambiare radicalmente il panorama editoriale del libro illustrato in questo paese, per elevare la qualità del libro come oggetto, per dimostrare che i picturebooks potevano essere fatti anche in Italia con coraggio, per alzare, di conseguenza, lo standard anche all’interno delle grandi case editrici. Un ‘atto di forza’ per tirarci fuori dalla palude degli ani ’80 e ’90 che forse restano i peggiori di sempre nel campo dei libri illustrati per bambini. Il cambiamento era auspicabile e si è compiuto, ma ora siamo nel guado. Se c’era un pubblico legittimamente in attesa di bei libri illustrati per bambini, quel pubblico io penso sia stato in gran parte deluso. I libri che abbiamo pubblicato hanno finito per formare se mai un pubblico di adulti che vuole libri illustrati che sembrino per bambini ma che di fatto non lo sono. Un pubblico che probabilmente neanche nota albi deliziosi e a loro modo perfetti come – sono solo due esempi recenti – Re Valdo e il drago di Bently e Oxembury o Cip e Croc di Alexis Deacon perché troppo semplici, troppo ‘per bambini’ e poco da galleria d’arte. Questo pubblico, che compera i nostri libri non per leggerli con i bambini e che è di nicchia, in parte determina le nostre azioni e così facendo ci ha allontanato dalla creazione, in questi anni, di un vero corpus di buoni libri illustrati per l’infanzia che possano piacere a tanti. I dati di vendita sono spietati in questo senso, la competizione con Stilton e Peppa Pig non è mai nemmeno incominciata. Non uno dei nostri picturebooks è mai arrivato nella classifica dei libri più venduti, nemmeno per poco tempo. E nel lungo periodo, per fare un esempio di cui posso parlare, il mio albo più venduto ha totalizzato poco più di diecimila copie in più di dieci anni, la cifra che qualunque best-seller raggiunge in un mese o a volte in una settimana. Chi volesse dire che come autore non esisto non sarebbe tanto lontano dalla verità.

Finale

E’ per tutti i fattori qui sopra elencati che non siamo riusciti a pubblicare, in tutti questi anni paradossalmente di intenso lavoro sull’albo illustrato, nessun libro che si avvicini alla condizione di classico, nel senso anche più umile del termine, cioè di libro che resista in libreria e si ristampi con continuità anziché sparire ed essere sostituito da altri dopo pochi mesi?

Ci siamo buttati sui picturebooks come se fossero la forma migliore e più attuale di libro illustrato, la più importante, come se non fosse altrettanto ricco di potenzialità e difficoltà artistiche e intellettuali creare la copertina di un libro, o fare disegni in bianco e nero o tavole a colori per un romanzo per bambini, o illustrare raccolte di fiabe, leggende ecc. Il picturebook ha risucchiato tutte le nostre attenzioni ed energie, ma non lo abbiamo capito ancora fino in fondo.

Forse se iniziassimo veramente a pensare a questo medium, col suo visivo e i suoi aspetti materiali così presenti, soprattutto come parte integrante del più vasto ambito della letteratura per l’infanzia e non, di volta in volta, come galleria d’arte, come strumento pedagogico, come esito di un calcolo dell’ufficio marketing, come meraviglia grafica e cartotecnica, come luogo in cui far finire il nostro lirismo un po’ polveroso, riusciremmo a creare finalmente gli albi illustrati per bambini che i bambini si meritano e che gli adulti possono con piacere leggere insieme a loro.

Alcuni esempi di picturebooks per me realizzati al meglio disponibili in libreria

Alexis Deacon, Cip e Croc, Settenove

Michael Rosen, Helen Oxembury, A caccia dell’orso, Mondadori

David Wiesner, Art e Max, Castoro

Chen Jiang Hong, Il principe tigre, Babalibri

Wolf Erlbruch, L’anatra, la morte e il tulipano, e/o edizioni

Komako Sakai, Giorno di neve, Babalibri

Alcuni esempi di picturebooks non disponibili o mai giunti in Italia e che non dovrebbero mancare nel nostro scaffale:

Anthony Browne, Gorilla

Margaret Wise Brown, Clement Hurd, Goodnight Moon

Judith Kerr, The Tiger Who Came to Tea

Roy Gerrard, The Favershams

Maurice Sendak, Outside Over There

Wanda Gag, Millions of Cats

Fabian Negrin, ottobre 2015 (articolo uscito sulla rivista “Hamelin” n. 40)

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