Come ogni giurato che si rispetti, comincio da un giuramento: giuro che non farò mai più il giurato. E spero che questo renderà più clementi dei miei – e più giudiziosi– i vostri giudizi sulla giuria, sui giurati, sul giudicare.
E poi un ringraziamento agli amici con cui ho condiviso questo compito: l’inflessibile e simpaticissima Lizbeth, il silenzioso e misterioso Katzoumi, e Jeff, il poeta, cui dobbiamo le scelte più innovative di questa edizione della Mostra Illustratori. Ciascuno di loro mi ha fatto vedere le immagini da un altro punto di vista, con altri occhi. E, infine, voglio ringraziare chi ci ha ospitato in una Bologna davvero generosissima.
Difficile descrivere quello che ho provato quando si sono aperte le porte del padiglione 18. Quindicimila disegni nudi in una sovraesposizione assoluta. Una quantità di lavoro enorme. La fatica, la speranza, la fragilità. La nostra responsabilità, la mia inadeguatezza, la mia parzialità. Ecco, in un attimo ho capito che non avrei potuto fare altro che essere, assolutamente, parziale. Non c’era, non c’è, alcuna possibilità di giudizio, ma solo una scelta, la mia, quella degli altri componenti della giuria. Ciascuno con la propria e diversa visione. Visioni lontane, ma – così mi è parso – un analogo approccio: il rispetto, e l’attenzione, per tutto quel lavoro, la noia per il decorativo, per gli esercizi di stile, la consapevolezza che quello dell’illustratore è un lavoro difficilissimo. Occorre esercizio, umiltà, capacità di confronto, flessibilità. Bisogna saper guardare, dentro e oltre sé stessi, saper raccontare.
Quello che ho cercato, fra migliaia di illustrazioni, è stata l’intelligenza: quella narrativa, quella estetica. E poi l’autenticità. Ho provato a tenermi alla larga dal fasullo, dalle mode, dalle tendenze del momento. Ho provato a cercare l’autenticità nell’uso delle tecnologie, il computer usato per riprodurre non ciò che le mani sanno fare meglio, ma ciò che le mani non possono fare. Non “falsi” acrilici, ma “veri” Photoshop. Ho cercato il coraggio, quello della ricerca di forme o colori, e quello delle idee. Ho provato a distinguere l’abilità, la perizia tecnica, l’intelligenza delle mani. E, alla fine, ho ripercorso una per una le immagini che, fra mille, erano rimaste nella mia mente, anche se non tutte potrete vederle nella mostra di quest’anno: un ragazzo che uccide un cervo per rubargli il cuore / un “bogeyman” che muta i bambini in automi ubbidienti / una piccola gallina –leggerissima– che attende in panchina / un Testamento molto, molto speciale /un groviglio di carta tagliata / un gatto sopra un water / una macchina per asparagi giganteschi / delle oche molto stupide dai tratti veloci ed elegantissimi / una mucca che prende il tè in salotto / un mondo popolato da maiali terribilmente avidi / un Cappuccetto Rosso intrappolato in un videogame / le parole di una donna che come pesci scivolano via dalla sua bocca. E forse è questa l’immagine che più di ogni altra somiglia al mio stato d’animo: mi sono mancate, le parole. Mi è mancata quella miscela speciale di immagini e parole di cui sono fatti i libri illustrati. Come se, d’improvviso, da migliaia di immagini stese sui tavoli del padiglione 18 le parole fossero scivolate via come pesci per dirigersi altrove. Le ho cercate, le parole, nelle scarne didascalie poste dietro a ogni disegno. Ma qui, alla Mostra Illustratori, sono le immagini, sole, a dover raccontare le loro storie. E noi, saperle ascoltare.
Non so se ne siamo stati capaci. Non so quanti –spero pochissimi– talenti siano rimasti fuori da questo catalogo e dalla mostra di quest’anno, ma sono certa che ve ne sono. Ma sono anche certa che le loro immagini troveranno altri e nuovi occhi, che sapranno guardarle, per ascoltare davvero la loro storia.