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Il Cairo, 29-30 Novembre 2006

Storie, parole, figure
(sezione dedicata a scrittura e illustrazione)

INTERVENTO DI FAUSTA ORECCHIO, ORECCHIO ACERBO EDITORE
Guardare le parole, leggere le figure
Ogni libro è, potenzialmente, moltissimi libri: tanti quanti coloro che lo leggeranno. Ciascuno di noi crea con la propria mente le immagini per la storia che legge e, con ogni probabilità, le mie immagini sono diverse da quelle di un altro.

Scrive il poeta inglese Wystan Hugh Auden:

Gli interessi di uno scrittore e quelli dei suoi lettori non sono mai identici: se talvolta coincidono è per un caso fortunato.

Leggere è come tradurre, perché l’esperienza di due persone non sarà mai la medesima. Un cattivo lettore è come un cattivo traduttore: si attiene alla lettera quando dovrebbe parafrasare e parafrasa quando dovrebbe attenersi alla lettera.[i]

E ancora, scrive Hans Magnus Enzsberger, poeta, romanziere, saggista tedesco fra i più interessanti del nostro tempo, che mal sopporta l’uso didattico della letteratura, e, in particolare, non tollera che poesie e racconti vengano usati per intimidire, annoiare e tormentare i ragazzi con stupidi questionari:

Nell’atto di leggere intervengono innumerevoli fattori che sono assolutamente incontrollabili: la storia sociale e psichica del lettore, le sue aspettative e i suoi interessi, il suo amore del momento, la situazione in cui si trova – fattori non solo assolutamente legittimi e da prendere quindi in seria considerazione, ma che soprattutto sono il presupposto su cui si fonda di fatto ogni lettura. Il suo risultato non è perciò determinato né determinabile attraverso il testo. In questo senso il lettore ha sempre ragione, e nessuno può togliergli la libertà di fare di un testo l’uso che più gli piace.

Fa parte di questa libertà sfogliare il libro da una parte e dall’altra, saltare interi passi, leggere le frasi alla rovescia, travisarle, rielaborarle, continuare a tesserle e a migliorarle con tutte le possibili associazioni, ricavare dal testo conclusioni che il testo ignora, arrabbiarsi e rallegrarsi con lui, dimenticarlo, plagiarlo, e a un certo punto gettare il libro in un angolo. La lettura è un atto anarchico. L’interpretazione, e in particolare l’interpretazione che pretende di essere la sola giusta, è proprio per questo un’operazione da far saltare.

Il suo gesto è sempre autoritario, produce sottomissione o resistenza.[ii]

A questo punto vorrei introdurre alcune questioni che mi stanno particolarmente a cuore.

La prima domanda è: l’illustrazione può in qualche modo rappresentare quella sorta di interpretazione univoca e autoritaria, che Enzsberger condanna?

In generale, credo che un buon libro illustrato sia quello in cui testo e disegni si fondono in un rapporto d’amore (o di odio), dicendosi: non posso più fare a meno di te.

Quel rapporto speciale in cui le illustrazioni modificano il testo, e da questo vengono a loro volta cambiate.

E qui mi vengono in mente libri in cui illustrazioni e parole sembrano vecchie coppie stanche che non hanno più nulla da dirsi, ma anche coppie indissolubili come Roal Dahl e Quentin Blake, o grandissimi amori come quello fra Roberto Innocenti e Collodi, in cui le illustrazioni di Innocenti hanno riscritto con inchiostro indelebile la storia di Pinocchio.

Ancora due esempi, fra i molti che si potrebbero fare.

Il primo è quello della disegnatrice tedesca Anke Feuchtenberger. Due anni fa abbiamo pubblicato una raccolta di dieci racconti di Andersen , illustrati da altrettanti disegnatori, quasi tutti provenienti dal mondo del fumetto. Anke Feuchtenberger ha riletto uno di questi racconti, La sirenetta, in una chiave sorprendente e coraggiosa. La sirenetta diventa qui un essere ‘altro’, un alieno, in una lettura dolorosa che ci svela la disperazione del grande narratore danese per non poter diventare altro da sé, in un amore impossibile destinato a non essere mai ricambiato.

Ecco, mi pare che Anke Feuchtenberger in questi disegni sia come il bambino di un’altra famosa novella di Andersen, I vestiti nuovi dell’imperatore, che grida ‘il re èn udo’, rivelandoci l’essenza della storia o un’altra verità. E, in un solo momento, lava via dalla nostra mente i capelli lunghi della sirenetta, la sua bellezza, il suo meraviglioso regno sottomarino: ora, se leggo quel racconto, quello che vedo è questo essere solo e indifeso, tenero e disperato, condannato implacabilmente a restare in un mondo da cui vorrebbe fuggire.

In questo caso, quello di Andersen e della Feuchtenberger, si tratta di un amore fatto di fedeltà assoluta, di verità.

Il secondo esempio, è un nostro libro di recente pubblicazione. Si tratta di un racconto di Dickens, tratto da una raccolta di memorie, The Uncommercial Traveller, in cui c’è un capitolo dal titolo Nurse’s stories in cui l’autore racconta la storia di una sorta di Barbablù, Captain Murderer, che si nutre della carne delle sue giovani spose. Di questo racconto abbiamo pubblicato una versione illustrata da Fabian Negrin che, nella nostra edizione, s’intitola Capitan Omicidio. Negrin ha riletto il racconto di Dickens proiettandolo in una dimensione dove tutto è possibile: Capitan Omicidio è un affascinante uccello dalle piume color sangue, le sue spose, o meglio, le sue vittime, variopinte farfalle, lo spazio d’azione è un meraviglioso giardino tropicale. Quando ci sono arrivate le prime illustrazioni ero stupita e delusa al tempo stesso: non erano le immagini che mi ero raffigurata leggendo Dickens, anzi, ne erano lontanissime. Poi, ho cominciato a rileggere il racconto un po’ come attraverso occhi nuovi e adesso per me non è più possibile immaginare altro che quell’uccello, quelle farfalle e quel giardino. Anche qui si tratta di un rapporto d’amore, ma, in questo caso, è passato attraverso il più crudele dei tradimenti. Di più: nelle pagine finali, quando il terribile divoratore di donne esplode, e tutti muoiono calpestati dagli zoccoli dei cavalli impazziti, Negrin inserisce un’immagine di farfalle/spose in volo, dicendoci che il testo mente, perché le spose in realtà sono vive, come in Cappuccetto Rosso dove la nonna e la bambina escono sane e salve dal ventre del lupo. Negrin ha preso Dickens –e, inevitabilmente, prenderà anche il lettore– e lo ha reso somigliante a sé, come farebbe un amante despota con l’oggetto della sua passione.

Quindi io credo che la risposta alla prima domanda sia sì, quando un illustratore lavora bene, quando cioè si pone rispetto al testo come autore, affronta un corpo a corpo con il racconto e, inevitabilmente, si sovrappone allo scrittore dandone un’interpretazione univoca. O, paradossalmente, lo tradisce, legandolo per sempre e implacabilmente alle proprie figure. Nei buoni libri illustrati il lettore sembrerebbe non avere più alcuna possibilità di creare da solo le proprie immagini.

Ma, a questo punto, sorgono altre domande: risponde alle stesse esigenze, e agli stessi sensi, il libro illustrato da quello che non lo è? Se è vero, e lo è certamente, che ciascuno di noi mentre legge crea le proprie immagini, quale può essere la funzione del libro illustrato?

Ciascuno di noi può immaginare solo quello che già conosce. Tante più immagini si vedranno, tanto più grande sarà la loro varietà, altrettanto grande sarà probabilmente la capacità di creare immagini con l’immaginazione.

Ma nel libro illustrato, nel libro per bambini, a ogni storia si lega indissolubilmente l’immaginario di chi la disegna. Cosa accade se questo immaginario è ricalcato su modelli sempre uguali a se stessi? Cosa accade se il mondo estetico dei bambini diventa un mondo fatto di immagini banali, un mondo di plastica?

In conclusione, io credo che il libro illustrato per bambini possa contribuire a una sorta di educazione dello sguardo, e che questa sia –per chi la vuole trovare– la sua funzione ‘pedagogica’. Leggere le immagini, vuol dire, in un certo senso, imparare a vedere. Si legge con il cervello, con il cuore, con le mani, con gli occhi. Gli occhi riflettono in un duplice senso: riflettono la realtà, come in uno specchio, e, al tempo stesso, dagli occhi parte una riflessione, un pensiero.

Imparare a vedere, a riconoscere le cose belle, aprire gli occhi, può voler dire contemporaneamente imparare a spegnere quello che è brutto. Acquistare consapevolezza.

L’ultima questione che consegue dai ragionamenti partiti dalla frase di Enszerberger, inserita nel contesto del libro illustrato, è: è giusta la convinzione secondo cui numerosi insegnanti, bibliotecari e genitori preoccupati per la crescente mancanza di interesse degli adolescenti per la lettura, avvicinano i bambini al libro illustrato, nella speranza che questo possa in qualche modo essere il concime che farà crescere futuri lettori?

Io, sinceramente, credo di no. Credo che l’avvicinamento alla lettura sia un percorso, in un certo senso, verso il vuoto, verso l’assenza di immagini imposte, verso la noia, verso l’ascolto. E fra l’altro, al di là della lettura, credo che questo sarebbe un percorso particolarmente utile per i nostri bambini che vivono in un mondo troppo pieno di tutto.

Non credo che un bambino accanito lettore di albi illustrati diventerà automaticamente un lettore da adolescente e da adulto. Anzi, può darsi che accada il contrario, che rifiuti la lettura e non ne voglia più sapere. Anche perché, nel frattempo, ci si mette con impegno la scuola, con i questionari e la lettura obbligatoria, a fargli passare la voglia di leggere.

Eccone uno, di questionario, riportato dentro ‘Che noia la poesia’ di Alfonso Berardinelli:

…Analizzate una poesia a vostra scelta. Nel testo prestate particolare attenzione al senso, agli elementi comunicativi e oggettivi del contenuto, alla costruzione e al linguaggio. In particolare evidenziate:

I propositi della poesia, il suo messaggio primario (la sua idea di fondo) e il modo in cui si rapportano gli elementi secondari.

Le parti di testo argomentative o di riflessione (con asserzioni generali e nessi logico-causali) e il loro valore (sono predominanti o hanno funzione argomentativa o commentativa?)

Il rapporto fra riproduzione e presentificazione (illustrazione) momentanea di elementi in caso contrario assenti attraverso la deissi, il dettaglio e la valutazione dei sentimenti…

…e così via, implacabilmente, sino al punto 27. Sfido che ti passa la voglia![iii]

Tuttavia sono convinta che, attraverso buoni libri illustrati, possiamo allargare il campo visivo di grandi e bambini, e, soprattutto, imparare a guardare oltre. Imparare a leggere attraverso altri occhi e altri pensieri, quelli di chi disegna, può essere un buon addestramento ad accettare altri e diversi punti di vista. Non è molto, non risponde alle esigenze di chi aspira sempre al primato della letteratura e vorrebbe un mondo fatto di lettori ‘forti’, ma è già qualcosa.

Michael Krüger, poeta e romanziere nonché direttore di una delle principali case editrici tedesche, la Hanser Verlag, parlando della traduzione, ci suggerisce una nuova materia da introdurre nelle scuole. Dice Krüger:

Traducendo contenuti, suoni, ritmi da una lingua all’altra l’uomo prende coscienza di sé stesso. La nostra immaginazione non è altro che la traduzione quotidiana di questi aspetti nella nostra lingua, il resto è solo prosaicità e potere. Nella traduzione il potere non conta, bisogna rispettare l’altro, proteggerlo, non si può ferire il testo. Tradurre poesie è il miglior esercizio di umanità che posso immaginare. Se a scuola si introducesse la materia ‘Traduzione’, si contribuirebbe a combattere la xenofobia: si imparerebbero le lingue, l’apertura verso la diversità e alcune nozioni del ritmo che tutti ballando o camminando imitano inconsciamente.[iv]

E illustrare è spesso un po’ come tradurre. E anche io, mentre lavoravo a uno dei nostri primi libri ‘Il signor Ventriglia’ di Marco Baliani, ho capito che bell’esercizio di umiltà e rispetto è quello di provare a tradurre visivamente una voce, in quel caso quella di un attore. E anche io ho immaginato quanto sarebbe stato utile quello stesso esercizio nelle nostre scuole di grafica.

Vengo così a una delle questioni che mi stanno più a cuore: la grafica.

Riporto un brano dal romanzo Foe, di Coetzee, scrittore sudafricano premio Nobel per la letteratura 2003. In Foe Coetzee reinventa la vicenda di Robinson Crusoe, puntando il suo sguardo acuto sulla narrazione. In questo brano la protagonista Susan Barton -naufraga approdata sull’isola di Cruso (Crusoe), alla ricerca della vera storia di Venerdì, lo schiavo cui è stata mozzata la lingua – discute con Foe (Defoe), lo scrittore cui ha deciso di affidare la propria storia e cui Susan chiede di svelare il ‘non detto’, il mistero chiuso nel mutismo di Venerdì:

Tutti gli sforzi per portare Venerdì a parlare, o dare la parola a Venerdì, sono falliti, – dissi. – Si esprime solo con la musica e la danza, che stanno al discorso come grida e urla stanno alle parole. A volte mi chiedo se nei primi anni di vita non abbia avuto una pur minima padronanza del linguaggio, se sappia cos’è il linguaggio.

Gli avete mostrato come si scrive? – disse Foe.

Come fa a scrivere se non sa parlare? Le lettere sono lo specchio delle parole. Anche quando sembra che scriviamo in silenzio, la scrittura è la manifestazione di un discorso fatto dentro di noi a noi stessi.

Eppure, Venerdì ha le dita. Se ha le dita, è in grado di dar forma alle lettere. La scrittura non è destinata a essere l’ombra della lingua orale. Fate attenzione a voi stessa mentre scrivete, e vi accorgerete che a volte le parole si formano sulla carta de novo, come dicevano i Romani, dal profondo dei silenzi interiori. Siamo abituati a credere che il nostro mondo sia stato creato da Dio pronunciando la Parola; ma, mi chiedo, non potrebbe invece averla scritta, aver scritto una Parola così lunga che noi non ne siamo ancora giunti alla fine? Non può essere che Dio scriva continuamente il mondo, il mondo e tutto ciò che vi sta dentro?

Non ho la competenza per dire se la scrittura sia capace di formarsi dal nulla, – risposi. – Forse sarà pur così per gli autori, ma non per me. Quanto a Venerdì, mi chiedo tuttavia: Come si può insegnargli a scrivere, se non ci sono parole dentro di lui, nel suo cuore, che la scrittura possa riflettere, ma solo un tumulto di sentimenti e di impulsi? Quanto allo scrivere di Dio, la mia opinione è: Se scrive, impiega una scrittura segreta, che a noi, che ne siamo parte, non è dato leggere.

Non possiamo leggerla, sono d’accordo, è quel che intendevo anch’io, perché noi siamo ciò di cui scrive. Noi, o alcuni di noi: è possibile che alcuni di noi non siano scritti, ma semplicemente siano; oppure (penso soprattutto a Venerdì) siano scritti da un altro autore, più oscuro. Tuttavia, la scrittura di Dio è un esempio di scrittura senza favella. La favella non è che un mezzo attraverso il quale esprimere la parola, non è la parola stessa. Venerdì non parla, ma ha le dita, e quelle dita saranno il suo mezzo. Anche se non le avesse, anche se i mercanti di schiavi gliele avessero mozzate tutte, potrebbe sempre reggere un bastoncino di carbone tra le dita dei piedi, o tra i denti, come i mendicanti lungo lo Strand. I gerridi, che sono insetti e non hanno la favella, tracciano il nome di Dio sulla superficie degli stagni, o così almeno dicono gli arabi. Nessuno è così privo di mezzi da non poter scrivere.[v]

La grafica è, prima di ogni altra cosa, questo: la grafica è scrittura. La grafica -come dice Giovanni Lussu, graphic designer italiano e studioso di scritture- è la forma del pensiero visibile.

Ma forse non è solo questo.

La carta del progetto grafico, assunta dalla principale associazione di graphic designer italiani, l’Aiap, dice: ‘il grafico è il regista’. Io non so se sia così, ma credo che nel libro illustrato, in questo corpo a corpo fra questi due sistemi visivi –quello della scrittura e quello delle illustrazioni– il grafico tesse relazioni, mette ordine, districa le incomprensioni, crea invisibili linee narrative, traduce da una linguaggio all’altro, si mette al servizio della storia. Perché il libro è un po’ come una stanza in cui si incontrano chi scrive, chi disegna e chi legge, e ciascuno parla una sua lingua. Se c’è rumore non ci si capisce. Tutto, in questa stanza misteriosa, dovrebbe tutelare la buona riuscita di questo incontro: i materiali, i colori, le forme. Solo così può diventare un incontro indimenticabile.

Credo che davvero dovremmo essere capaci di fare libri belli: gli editori diventare più bravi a trovarli, chi sa disegnare più bravo a illustrarli e, chi scrive, più bravo a raccontare le storie necessarie.
Sempre più si tende a farci credere che il nostro mondo è buono e bello, e che tutte le cose brutte accadono altrove. Non ora, non qui. Altrove esiste la fame, la guerra, l’ingiustizia. Ma non riguarda il nostro mondo. Non succede qui. Anche nei libri per bambini c’è questa tendenza. Troviamo libri, belli ed educativi, su tutte queste ingiustizie, su tutto questo dolore, ma pochi parlano di quello che succede qui, adesso. Se ègiusto, e abbastanza naturale, che il nostro cuore e la nostra solidarietà vada a tutti i bambini che soffrono in paesi e in culture lontane dalla nostra, non si può chiudere gli occhi su quanto qui – e mi riferisco all’Italia – i bambini siano soli, circondati dal troppo: una montagna di cose brutte e inutili, un rumore assordante, un mondo di adulti che si preoccupa sempre meno del futuro. I bambini credo sappiano bene cosa significa essere infelici. Anche qui, anche adesso. E ancora: perché parlare sempre di guerre, ingiustizie, sofferenze lontane e poco, o affatto degli sbarchi che accadono ogni giorno sulle nostre coste, dei ghetti delle nostre periferie, della nostra intolleranza ai diversi, dei barboni che muoiono agli angoli delle nostre strade, dei lager in cui costringiamo i nostri animali?

E forse c’è bisogno di cominciare a dire che la solidarietà non è solo questione di Sms da un euro, e che la solidarietà serve ogni giorno, soprattutto ora, più che mai qui.

All’inizio, quando abbiamo cominciato a pubblicare libri, si trattava di una scommessa. Volevamo vedere se fosse possibile gestire in prima persona (e non più per altri come avevamo fatto fino a quel momento come studio grafico) un’impresa editoriale contraddicendo o semplicemente ignorando ogni regola di mercato. Facendo i libri che piacevano a noi. Che siano stati i bambini, o comunque i giovani, i nostri interlocutori è stato un fatto in un certo senso naturale. In Italia, diversamente da altri paesi come la Francia, bambini e ragazzi sono gli unici lettori di libri illustrati.

Quella scommessa l’abbiamo vinta e l’abbiamo anche persa. La casa editrice oggi esiste, e quindi la scommessa è vinta. Ma al tempo stesso ci siamo resi conto che è tutto vero: vendono i libri facili, con immagini rassicuranti, ricalcate sui modelli televisivi. Per avere successo bisogna essere banali, avere molti soldi, studiarsi attentamente le regole di marketing, considerare i bambini come qualunque altro oggetto di mercato.

Ma oggi, quella scommessa non c’interessa più. Non è più quello il problema. I bambini, i ragazzi, sono quello che c’interessa. La loro solitudine, la loro curiosità, il loro mondo, così diverso dal nostro. Un mondo dove il fasullo non può esistere. Un mondo dove ogni cosa è possibile, dove i sogni – o gli incubi­ – diventano realtà. Dove tutto avviene adesso, qui, ed ètutto vero. Un mondo terribilmente fragile.

[i] Wystan Hugh Auden, La mano del tintore, trad. di Gabriella Fiori, Adelphi, Milano 1999, pp. 15-17

[ii] Hans Magnus Enzensberger, Sulla piccola borghesia, trad. di Alfonso Berardinelli, Il Saggiatore, Milano, 1983, p. 20.

[iii] Alfonso Berardinelli, Hans Magnus Enzensberger, Che noia la poesia. Pronto soccorso per lettori stressati, trad. di Enrico Ganni, Einaudi, Torino 2006, pp. 5-6.

[iv] Poesia di oggi, poesia di domani, incontro fra Michael Krüger e Piero Salabè, da ‘Lo Straniero’ n. 76, ottobre 2006, pp. 85, Contrasto Due S.r.l., Roma.

[v] Joseph Michael Coetzee, Foe, trad. di Franca Cavagnoli, Einaudi, Torino 2005, pp. 128-129.

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