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Avevo sentito parlare molto dell’”Albero di Anne” ancora prima di averlo tra le mani. Dopo aver ricevuta la proposta di presentarlo dalle amiche della Biblioteca Internazionale in occasione della Giornata della Memoria– proposta che non avevo potuto accettare per impegni precedenti – avevo fatto delle ricerche per capire qualcosa di più sulla struttura del libro, sulla personalità della scrittrice francese, sul giovane illustratore italiano già avviato sulla strada di una luminosa carriera. Oltre, bene inteso, sull’editrice “Orecchio acerbo”, che ho scoperto offrire sicure garanzie dato che pubblica libri per ragazzi che non recano danni agli adulti / libri per adulti che non recano danni ai ragazzi. Ecco spiegato il mio entusiasmo nell’accettare la seconda proposta di presentare “L’albero di Anne”, questa volta alla Casa della memoria che ormai da qualche anno è diventata un poco anche casa mia.

Sono ormai molti anni che mi occupo di trasmissione della memoria, memoria rivolta non solo agli studenti delle scuole medie e superiori, ma anche agli alunni delle scuole elementari. Credo di essere stata tra le prime ad affrontare la sfida di raccontare ai più piccoli alcuni momenti drammatici della nostra storia recente, contando anche sul fatto che mi presento con i ricordi della bambina di un tempo, che i bambini di oggi possono immaginare come loro coetanea. Inoltre, tenuto conto non solo dell’età che avevo allora, ma anche del fatto di essere stata vittima delle stesse persecuzioni razziali, sono stata spesso accostata ad Anne Frank. Accostamento che probabilmente devono aver fatto in qualche modo anche le mie figlie quando, raggiunta la prima adolescenza e sapendo che pure io ero stata costretta a nascondermi, sono state accompagnate da me e dal loro padre a visitare il rifugio di Anne al n. 263 di Prinsengracht, nel centrale quartiere di Jordan alle spalle di uno dei tanti canali di Amsterdam. Quella visita è stata per Aviva e Ruth una tappa importante della loro vita, non solo perché da allora si sono assunte l’onere di farsi carico della memoria, ma anche perché è stato il punto di partenza nel rifiutare, in modo attivo e deciso, ogni forma di discriminazione sotto qualunque aspetto possa presentarsi. La memoria, quindi, non solo per non dimenticare il passato, ma anche per leggere correttamente il presente e per preparare un futuro possibilmente migliore. Gli attuali segnali non sono per niente consolanti: è di una settimana fa la grande scritta “ANNA NON L’ HA FATTA FRANK” sul muro della posta centrale di Bravetta. Il mio pessimismo trova conferma da recentissime rilevazioni di Betti Guetta del Cdec di Milano, secondo il quale “grazie ad Internet è diventato molto facile trovare materiale antisemita e negazionista. Queste idee, che appaiono spesso rivestite da un’autorità pseudo-scientifica, circolano liberamente e vengono assorbite da molta gente, specie tra i giovani. Così si crea nella percezione di tanti una sorta di diritto ad essere antisemiti, anche perché è scarsa la conoscenza di persone di religione ebraica, o dell’ebraismo”. Ha proprio ragione Eugenio Scalfari, quando afferma che bisogna avere più paura degli imbarbariti che dei barbari.

Con la nascita dei nipoti, in particolare di quelli che vivono in Italia, mi sono spesso domandata in che modo avrei potuto affrontare questo argomento, o come rispondere alle loro domande. Per le mie figlie era stato certamente più facile, perché in casa dei loro nonni avevano preso presto confidenza con le storie legate a certi ritratti, a determinati oggetti, a una serie di fotografie che non si erano ancora ingiallite. Con i nipoti, invece, non sapevo quale occasione cogliere per iniziare una storia che coinvolge così profondamente la nostra famiglia, scartando però decisamente le celebrazioni ufficiali che – a livello personale – mi convincono poco, anche se obiettivamente hanno dimostrato di avere in molti casi una loro utile funzione. Ebbene, è stato “L’albero di Anne” che mi ha indotto per la prima volta ad affrontare l’argomento quando, pochi giorni fa, Amira di 5 anni e mezzo, e Noam di quasi quattro anni sono venuti a trovarmi (quindi ambedue hanno un’età inferiore a quella suggerita per la lettura). Come sempre avevo preparato un libro, da sfogliare insieme e poi eventualmente da regalare; ma anche se avevo già messo da parte “Un cagnolino per Efrat” di Abraham Yehoshua, ho deciso improvvisamente di mostrare loro il libro di Irène Cohen-Janca, che ero sicura avrebbe incantato loro quanto aveva incantato me. I due bambini, con accanto i loro genitori, sono rimasti affascinati dai disegni e dalla storia, un po’ alleggerita da alcuni dettagli, che mi ero messa a leggere; mia figlia si è alternata con me nel rispondere alle loro domande sul perché Anne doveva nascondersi, o sul significato della stella gialla. Abbiamo sfogliato e risfogliato il libro fino al momento del commiato, ed è stato allora che Noam ha afferrato “L’albero di Anne” e ha detto deciso “questo ce lo portiamo a casa noi”, sostenuto con forza anche da sua sorella; i due bambini se ne sono andati in pace solo quando ho promesso che lo avrebbero riavuto tra le mani dopo la presentazione odierna. Che dire? E’ un’ulteriore ragione per essere grata ad “Orecchio acerbo” per avere pubblicata l’edizione italiana di un libro, che produce questi risultati nei lettori anche molto piccoli.

Riprendo quanto avevo detto all’inizio a proposito delle mie ricerche sulla struttura, l’autrice e il disegnatore Maurizio Quadrello prima ancora di avere in mano “L’albero di Anne”. Aggiungo ora che mi è stato subito chiaro il legame tra il libro e il giovane francese Ilan Halimi, alla cui memoria lo stesso è dedicato; legame che mi ha permesso di individuare una seconda traccia seguita dall’autrice, al di là di una prima lettura relativa al rapporto diretto tra Anne e l’ippocastano, suo unico contatto con la natura che era diventata irraggiungibile da quando essa era stata costretta a raggiungere il nascondiglio per sfuggire alla cattura. E’ molto probabile che Irène Cohen-Janca, tunisina trapiantata da tempo in Francia che non conosco personalmente, sia stata ispirata, nello scrivere il libro, anche dallo stretto legame che unisce il mondo ebraico agli alberi. La tradizione rabbinica insegna che La vita dell’uomo dipende dagli alberi. ( Jalkuth Shimoni Devarim, 30), ed è la stessa Anne a rivelarci nel diario come la qualità della sua vita di reclusa migliorasse alla vista dell’ ippocastano, che scorgeva dalla soffitta “…in piena fioritura dalla testa ai piedi, pieno di foglie e più bello dell’anno scorso”, e che le permetteva di indovinare il cambiamento delle stagioni quando sfioriva e rifioriva “dopo questo inverno mite, una bellissima primavera…il nostro ippocastano è già abbastanza verde, e qua e là si vede persino qualche candelina”.

Questa mia deduzione è avvalorata dal fatto che è consuetudine nel mondo ebraico piantare alberi in occasione di nascite, maggiorità religiose, matrimoni e soprattutto per la scomparsa di persone care, perché un albero che porta il loro nome vuol dire infinite primavere. Così, ci racconta Irène Cohen-Janca, il piccolo ramo staccato dal tronco malato e piantato al posto dell’ippocastano abbattuto continuerà a mantenere vivo nel tempo il ricordo di Anne al 263 di Prinsengracht, in accordo ad un’altra raccomandazione della tradizione ebraica che invita a: Non dire mai “ Non pianteremo”. Al contrario, piantate per i vostri figli, come i vostri antenati hanno piantato per voi. ( Avoth di Rabbi Nathan). In futuro il ricordo di Anne Frank, per chi leggerà questo libro prezioso – ed ecco una terza lettura – rimarrà legato a quello del 23enne Ilan Halimi, commesso in un negozio di cellulari; adescato da una graziosa ragazza; sequestrato da una gang di coetanei a scopo di riscatto nonostante le modeste condizioni economiche della famiglia perché – a tutt’oggi, nell’immaginario collettivo- gli ebrei sono spesso considerati tutti immensamente ricchi; poi, torturato durante tre lunghe settimane, e infine ucciso nella civilissima Francia. Era il 13 febbraio 2006, giorno di Tubishvat, il capodanno degli alberi che secondo il calendario ebraico cade ai primi accenni della primavera.

Io sono tra coloro che nutrono la speranza che, con i ricordi, non si intrufolino funghi e parassiti nel piccolo ramo piantato al posto dell’ippocastano malato e abbattuto. Anch’io ritengo sia bene ricordare che i parassiti più pericolosi sono i tarli, quelli della memoria. Quelli che vorrebbero intaccare, fino a negarlo, il ricordo di Anne Frank che, per noi che abbiamo letto il bel libro pubblicato da “Orecchio acerbo”, rimarrà indelebilmente unito a quello del giovane francese, il cui “caso” è analogo a quello del giornalista statunitense Daniel Pearl del Wall Street Journal, anche lui ucciso orrendamente in Pakistan nel 2002 per il solo fatto di essere ebreo. Ma mentre la storia di Daniel Pearl è stata ampiamente conosciuta grazie al libro scritto dalla moglie Marianne, da cui è stato tratto il film “Un cuore grande” con Angelina Jolie, il “caso” di Ilan Halimi figlio di una centralinista è stato tenuto in Francia su un registro basso per non urtare la “sensibilità” delle comunità musulmane delle periferie. Aggiungo per la cronaca che la drammatica vicenda del giovane francese ha registrato in Italia un disinteresse quasi generale da parte dei mezzi comunicazione, che si sono limitati a qualche breve accenno e nulla più.

Come potete comprendere da quanto vi ho appena detto, avevo più di una buona ragione per accettare con entusiasmo la presentazione di un libro davvero speciale. Secondo Dino Buzzati, scrivere un libro per ragazzi è come scriverlo per gli altri, solo è più difficile. Irène Cohen-Janca, magnificamente coadiuvata da Maurizio Quadrello, hanno vinto una bella sfida mandando alle stampe un opera essenziale, prima di retorica, che avvicina con delicatezza i più giovani al tragico tema della Shoah attraverso l’immaginazione e la poesia.

Roma, 18 maggio 2010

Pupa Garribba

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